Arthur Duff celebra l'unicità insita in ciascuno di noi

Avete mai pensato di partecipare alla creazione di un’opera d’arte?

The Human Safety Net, la Fondazione del gruppo Generali dedicata a fornire sostegno a famiglie e rifugiati in difficoltà, ha trovato casa presso le Procuratie Vecchie di Piazza San Marco a Venezia e dal 14 aprile ospita un’opera di Arthur Duff intitolata “The Hungriest Eye. The Blossoming of Potential”: si tratta di un’installazione facente parte della mostra permanente “A World of Potential”, che consente ai visitatori di esplorare ed approfondire la conoscenza dei punti di forza insiti nel proprio carattere attraverso 16 diverse installazioni interattive, sia analogiche che digitali.

L’opera di Arthur Duff situata all’interno dell’Art Studio, uno spazio dedicato a mostre temporanee che ospitano opere di artisti la cui sensibilità e visione siano affini ai valori comunicati dalla Fondazione, trasforma i punti di forza dei visitatori, individuati precedentemente lungo il percorso, in una rappresentazione artistica sensazionale e irripetibile attraverso l’utilizzo di un sistema laser che crea forme uniche in un caleidoscopio di luci e colori. La finalità è quella di sottolineare e celebrare l’unicità che caratterizza ciascuno di noi e ci contraddistingue dagli altri. La presa di coscienza di questa stessa unicità, riprendendo i propositi di The Human Safety Net, dovrebbe aiutare le persone, talvolta emarginate, ad integrarsi nella società e a sfruttare le proprie potenzialità con consapevolezza, al fine di trovare il proprio posto nel mondo.

Uno dei punti di forza della mostra è indubbiamente la sua natura innovativa e interattiva, che permette ai visitatori di condurre un’esperienza unica durante la quale mettersi in gioco in prima persona e partecipare attivamente alla creazione di un’opera d’arte. Ma non si tratta di un’attività da sperimentare esclusivamente in chiave individuale, poiché l’individuo è chiamato a relazionarsi con l’altro nel momento in cui, terminati i trenta secondi di esposizione della propria composizione laser, essa può lasciare spazio alla rappresentazione di una nuova immagine al sopraggiungere del visitatore successivo. L’esperienza è dunque profondamente immersiva e personale ma al contempo presuppone la condivisione di uno spazio e di un momento di interazione con gli altri, all’interno di un dialogo che protegga sempre la libertà di espressione di ciascuno di noi.

 


Beni culturali e diritto all’immagine: storica sentenza del Tribunale di Firenze

di Avv. Michela Zanetti

 

L’utilizzo e la riproduzione dei beni culturali è ora come non mai al centro dell’attenzione dei media: dai molti interrogativi suscitati dall’utilizzo della Venere di Botticelli nella campagna “Open To Meraviglia” recentemente promossa dal Ministero del Turismo all’intervento normativo con cui il ministro Sangiuliano ha dettato le linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d'uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali (del D.M. 161/2023).

Proprio in questo scenario è giunta ieri una sentenza del Tribunale di Firenze con cui è stato dichiarato illegittimo l’utilizzo a scopi pubblicitari dell’immagine del David di Michelangelo; l’opera (“modificata col meccanismo della cartotecnica lenticolare e quindi sovrapposta all'immagine di un modello”) era stata riprodotta sulla copertina di una rivista edita da una nota casa editrice, senza alcun consenso da parte delle Gallerie dell’Accademia e senza il pagamento di alcun corrispettivo. Inoltre, la riproduzione dell’immagine attraverso la tecnica lenticolare avrebbe permesso alla società editoriale di accostare “insidiosamente e maliziosamente” l’immagine del David di Michelangelo a quella di un modello “così svilendo, offuscando, mortificando, umiliando l’alto valore simbolico ed identitario dell’opera d’arte ed asservendo la stessa a finalità pubblicitarie e di promozione editoriale”. Tutto ciò avrebbe determinato alle Gallerie un danno di carattere patrimoniale e non, per un importo complessivo di circa 50mila euro.

Sebbene il David abbia già fatto parlare di sé in passato nelle aule del Tribunale, la decisione in esame rappresenta la prima sentenza di merito sull’argomento, che sancisce a pieno titolo la tutela all’immagine dei beni culturali nel nostro Paese. Il Tribunale di Firenze ha, infatti, riconosciuto l’immagine dei beni culturali come espressione dell’identità culturale della Nazione e della sua memoria storica, tutelabile ex art. 9 della nostra carta costituzionale.

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È un falso solo perché lo dice l’Archivio? Il caso del dipinto di Josef Albers “Study for Homage to the Square”

di Avv. Michela Zanetti

 

In una sentenza del novembre 2021, la Corte d’Appello di Milano si è chiesta se l’opinione resa da archivi e fondazioni possa essere sufficiente a decretare, tout court, l’autenticità o meno di un’opera d’arte.

Oggetto del contendere era il dipinto «Study for Homage to the Square» attribuito, secondo quanto riferito dallo stesso proprietario, all’artista Josef Albers. L’opera, acquisita per eredità, era priva sia del certificato di autenticità che del numero di archiviazione. Nulla di anomalo, fintanto che il dipinto era rimasto appeso alle pareti dell’abitazione del suo proprietario. Tuttavia, quando un mercante d’arte mostrò interesse all’acquisto, l’opera fu sottoporta all’esame del legale rappresentante della Albers Foundation – fondazione istituita nel 1971 che si occupa di tutelare nel mondo il nome e le opere dell’artista. L’analisi (affidata esclusivamente all’esperienza e all’occhio allenato dell’espero) si rivelò disastrosa: il dipinto venne dichiarato falso e la firma apocrifa. Supportato dalla storica dell’arte della Fondazione, il legale rappresentante denunciò il proprietario del dipinto al nucleo Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale di Monza. All’esito del giudizio di primo grado, nell’ottobre 2020, l’opera fu confiscata e il proprietario condannato per ricettazione - n.d.r. poi assolto nel giudizio d’appello.

La sentenza venne impugnata dai legali dell’imputato, che insistevano sull’assenza dell’elemento oggettivo (assenza della prova certa della falsità) e soggettivo del reato (assenza del dolo eventuale). Secondo la ricostruzione della difesa, l’imputato non poteva avere alcuna reale consapevolezza della (presunta) falsità dell’opera, in forza dell’intrinseca storicità della stessa - purtroppo ignorata o, comunque, sottovalutata dall’analisi di Weber. Nello specifico, (i) il dipinto presentava alcune iscrizioni sul retro della tela riconducibili al padre del gallerista e, forse, allo stesso Albers, (ii) l’opera risultava inclusa in un volume dedicato all’artista, la cui prefazione era redatta proprio da Weber e (iii), infine, il dipinto era stato esposto in una mostra, ufficializzata nel sito internet della stessa Fondazione.

La Corte – consapevole del fatto che non sempre chi possiede un’opera d’arte è in grado di provarne l’autenticità, e che l’incertezza che da ciò ne deriva è elemento caratterizzante lo scambio di beni nel mercato dell’arte - si è interrogata su quale debba essere il peso effettivo dell’opinione resa da archivi e fondazioni nel determinare la non autenticità di un’opera, in considerazione anche del ruolo che tali enti ormai rivestono nel mercato dell’arte. Infatti, l’autorità riconosciuta ad archivi e fondazioni nel decretare l’autenticità o meno di un’opera d’arte deriva da una consuetudine instaurata e riconosciuta nel mercato dai suoi principali operatori (galleristi, case d’asta e mercanti d’arte) e che si fonda, di fatto, sulla credibilità e buona reputazione di cui godono tali enti. Tuttavia, archivi e fondazioni, quando sono chiamati a valutare l’autenticità o meno di un’opera, non fanno altro che esprimere delle opinioni che, pur se indubbiamente autorevoli, non godono di certezza assoluta né derivano dalla applicazione di una scienza esatta. Tali opinioni, piuttosto, conservano un’intrinseca soggettività ed un innegabile margine di discrezionalità e sono, pertanto, sempre modificabili e contestabili.

È quindi possibile che un solo occhio esperto, per quanto autorevole, sia in grado di decretare la non autenticità di un’opera d’arte? Si legge in sentenza: Il parere di un esperto, indipendentemente da quanto autorevole sia, può sempre essere messo in discussione da altro esperto o consulente. Occorre, infatti, tener conto della peculiarità dell’oggetto d’arte come oggetto di scambio, peculiarità che dipende principalmente dall’incertezza intrinseca della sua esatta identità e provenienza, che spesso dipendono da una valutazione, quella dell’esperto, che per quanto diligentemente resa, altro non è se non un giudizio, un’opinione, suscettibile come tale di mutamento.

I giudici milanesi sembrano aver preso consapevolezza del fatto che le opinioni sull’autenticità delle opere d’arte devono essere supportate da prove tecniche, storiche, scientifiche – in altre parole, da una attenta due diligence: solo così il destino di un’opera d’arte (autentica/non autentica) potrà essere affrancato dal parere di un unico soggetto/ente. Ciò a maggior ragione se si considera che, talvolta, tali enti possano trovarsi in conflitto di interessi con le parti coinvolte. Nel caso in esame, infatti, la Fondazione Albers si occupa anche di vendere al pubblico alcune opere dell’artista, esclusivamente attraverso rappresentanti autorizzati. Sul punto la Corte ha chiarito che il vaglio di attendibilità doveva essere ancora più penetrante in considerazione del fatto che l’Archivio, che possiede il monopolio sul rilascio dei certificati di autenticità, risulta altresì proprietario di opere e, quindi, inevitabilmente portatore di interessi economici sul mercato, dovendosi ipotizzare anche un potenziale conflitto d’interesse. La Fondazione Albers, difatti, come risulta espressamente dal suo sito web istituzionale, si occupa anche di vendere al pubblico un limitato numero di opere attraverso i suoi rappresentanti autorizzati.

La speranza è questa sentenza aiuti gli operatori del mercato dell’arte a comprendere la necessita e l’importanza di eseguire attente ed approfondite analisi e valutazioni sull’autenticità e provenienza delle opere che intendono scambiare, attraverso l’aiuto della professionalità di tecnici, storici dell’arte e legali.

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Il Foppa “mascherato”: un recente caso in tema di annullamento in autotutela dell’attestato di libera circolazione

di Avv. Michela Zanetti

 

Risale allo scorso 3 aprile una nuova pronuncia del Tar Lazio in materia di annullamento in autotutela di un attestato di libera circolazione rilasciato dalla Soprintendenza di Genova qualche anno fa. Il provvedimento, datato settembre 2019, consentiva l’uscita dal territorio nazionale di un dipinto raffigurante un San Pietro su fondo oro, acquistato all’asta da una società svizzera per circa duemila euro. Ottenuto l’attestato, l’acquirente, che opera nel mercato dell’arte, aveva trasferito il dipinto all’estero per restaurarlo. Nel 2021, l’opera restaurata raggiungeva Christies’ New York per essere rivenduta in asta, con la descrizione “Pittore del XVII secolo: San Pietro Dipinto su tavola fondo oro cm. 47x40 – ALC (Genova) n. 18603 del 3.9.2019”. Tuttavia, durante le consuete valutazioni preliminari, gli esperti della casa d’asta newyorkese attribuivano l’opera al pittore bresciano Vincenzo Foppa, padre del Rinascimento lombardo, e ne stimavano il valore tra i 200 e i 300 mila dollari. La notizia approdava anche sui social e così, da alcune discussioni in un gruppo privato di Facebook, il Ministero veniva a conoscenza del riconoscimento del dipinto e della sua imminente vendita all’asta. Immediatamente, l’amministrazione si attivava tramite il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale per interrompere la procedura di vendita e annullava, in autotutela, ex art. 21 nonies L. n. 241/90, l’attestato di libera circolazione dell’opera, ordinandone altresì il rientro in Italia. Nella speranza di poter annullare tali provvedimenti, la società proprietaria del dipinto proponeva ricorso al Tar. Lo scorso aprile, il Tar dichiarava improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso principale e rigettava il ricorso per motivi aggiunti.

Non è poi così infrequente che l’amministrazione intervenga successivamente al rilascio di un attestato di libera circolazione per dichiararne l’annullamento tramite l’applicazione dell’istituto di cui all’art. 21 nonies della L. 241/90: si tratta del cosiddetto annullamento in autotutela, efficace retroattivamente, che può essere invocato laddove l’amministrazione, riesaminando il proprio operato, si accorga di un vizio esistente ab origine nel provvedimento. Il rimedio è esperibile in presenza di un interesse pubblico tale da giustificare l’annullamento dell’atto viziato. Il legislatore ha previsto un limite temporale all’esperibilità di tale rimedio, fissando un termine di dodici mesi (n.d.r. diciotto all’epoca della vicenda in oggetto) oltre il quale l’amministrazione non potrà più agire in autotutela (anche se l’applicabilità di tale termine anche agli attestati di libera circolazione non è poi così pacifica in giurisprudenza).

In che casi, quindi, l’amministrazione potrebbe voler annullare in autotutela un attestato di libera circolazione? Per fare qualche esempio, si pensi all’ipotesi in cui un’opera subisca un cambio di attribuzione (dapprima attribuita alla “bottega di” o alla “scuola di” e poi riconosciuta come di mano del maestro) oppure all’ipotesi in cui, appunto, un restauro sveli un’opera totalmente diversa rispetto a quella portata all’esame dell’amministrazione (il TAR Lazio in una pronuncia del 16.10.2018 parla addirittura di aliud pro alio); famoso il caso che ha visto coinvolto un dipinto di Giotto, originariamente attribuito ad un anonimo imitatore del XIX secolo e lasciato uscire dall’Italia che si è poi rivelato ascrivibile, in seguito al restauro, nientemeno che al grande maestro. Ancora, si potrebbe pensare all’ipotesi in cui un’opera venga riesaminata all’estero e si riveli essere di eccezionale rarità– si pensi al caso del dipinto Ritratto di Camillo Borghese di Francois Gérard, attualmente in giudizio, dove l’opera era stata presentata alla Soprintendenza di Bologna come dipinto ad olio su tela raffigurante ritratto virile, salvo rivelarsi poi come l’unico ritratto presente in Italia di Camillo Borghese, cognato di Napoleone.

Per quanto riguarda il caso in esame, le ragioni che hanno portato il Ministero a procedere con l’annullamento in autotutela si basano sul fatto che l’attestato di libera circolazione sarebbe stato rilasciato sulla base di un’istruttoria ritenuta insufficiente, svolta sulla base di una denuncia fuorviante, carente ed incompleta […]. L’opera sarebbe stata sottoposta all’esame della Commissione presso l’Ufficio Esportazione di Genova “imbruttita e “mascherata” […] Il cattivo stato di conservazione del dipinto, aggravato da pesanti ridipinture, e la mancata indicazione dei predetti elementi conoscitivi avrebbe indotto le Commissioni istruttorie interpellate […], a rilasciare il richiesto attestato sulla base di una rappresentazione carente ed incompleta dei fatti. Nonostante i numerosi motivi di ricorso presentati dal proprietario del dipinto, il Tar ha comunque ritenuto scevra da profili di illogicità e irragionevolezza la valutazione resa dall’amministrazione in conformità con i criteri fissati dal D.M. 537/2017 (nella fattispecie, qualità artistica e rarità) e pertanto ne ha escluso la sindacabilità in sede giurisdizionale, rigettando il ricorso.

Si tratta di questioni che fanno discutere e lasciano aperti molti interrogativi. In un mondo come quello dell’arte, la questione relativa all’attribuzione e alla provenienza (specialmente con riguardo alle opere più risalenti) porta in sé un’incertezza intrinseca, essendo spesso ancora affidata quasi esclusivamente alle opinioni degli esperti, per loro stessa natura modificabili ed opinabili. Uno strumento come quello dell’annullamento in autotutela rischia, quindi, di ingenerare ancora più incertezza e confusione nei soggetti che si trovano ad operare all’interno del mercato dell’arte. Forse il problema potrebbe essere in parte risolto a monte, ovvero fornendo alle amministrazioni gli strumenti per approfondire in maniera ancor più rigorosa la provenienza delle opere e la loro attribuzione, attraverso una attenta due diligence storico artistica. In tal modo si eviterebbe di dover “correre ai ripari” quando ormai l’opera ha già varcato i confini del nostro paese, con una maggior tutela di tutti gli interessi coinvolti.

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Il Surrealismo in mostra a Milano

La collezione permanente del Mudec di Milano ha aperto un dialogo con 180 opere, tra dipinti, sculture, disegni, documenti e manufatti provenienti dal museo Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, ove è conservata una delle più importanti collezioni di arte surrealista al mondo.

La mostra Dalí, Magritte, Man Ray e il Surrealismo. Capolavori dal Museo Boijmans Van Beuningen è affidata alla curatela di Els Hoek, storica dell’arte, ed indaga il complesso rapporto tra l’universo surrealista e le culture extra occidentali.

I capolavori di Max Ernst, Man Ray, Dalì, Magritte e Paul Delvaux consentono ai visitatori di esplorare appieno la ricerca surrealista, incentrata sulle tematiche della psiche, del sogno e realtà, dell’amore, della morte, dell’inconscio e del desiderio, lungo un percorso suddiviso in sei sezioni, ciascuna delle quali è introdotta da una scultura o da un oggetto simbolico che ne evoca il tema stesso.

Il surrealismo fu anche movimento filosofico e letterario, politicamente impegnato ed in netta contrapposizione con la società occidentale industrializzata degli anni ’20: rifiutando la logica e la corruzione causata dall’eccessivo materialismo, tramite la messa a nudo del nostro subconscio gli artisti surrealisti negano i limiti della razionalità e traspongono sulla tela l’esperienza onirica e l’elemento fantastico all’interno di un’atmosfera metafisica.

Dall’accostamento apparentemente casuale di singoli elementi, talvolta contraddittori rispetto alla realtà in cui vengono inseriti, il confine tra realtà e illusione diventa sempre più labile provocando nello spettatore una sensazione di inquietudine e smarrimento. Tra le tecniche impiegate troviamo la decalcomania, i collages ed il frottage, la cui paternità viene tipicamente attribuita a Max Ernst: si tratta di una tipologia di automatismo psichico che, attraverso forme libere di associazione, dà origine ad immagini dal significato simbolico che trascendono il controllo morale o razionale della coscienza travalicando canoni estetici prestabiliti. La finalità dell’arte è difatti quella di sovvertire la realtà che conosciamo abitualmente, traducendo l’attività dell’inconscio in un prodotto figurativo inedito ed inconsueto, ove è ricorrente la metamorfosi dei soggetti e l’esasperazione dei caratteri raffigurati.

Il potere creativo dell’inconscio rompe il predominio della ragione in questa imperdibile rassegna che sarà aperta al pubblico fino al 30 luglio 2023.