Webinar | Investimenti in opere d'arte

Ringraziamo Consultique SCF, società leader in Italia nell’analisi e consulenza finanziaria indipendente, per averci invitati a parlare di Investimenti in opere d'arte durante il webinar svoltosi mercoledì 12 luglio.

È stata un'occasione stimolante per dialogare con i professionisti di One Stop Art su temi centrali legati al mondo dell'arte: il Dott. Umberto Zagarese, fiscalista e collezionista, ha parlato di come e perché formare una collezione di opere d'arte, il Dott. Marco Trevisan, art advisor e direttore della Fondazione Alberto Peruzzo, ha spiegato l'importanza di creare un portafoglio di opere equilibrato per valorizzare al meglio la propria collezione, l'avv. Michela Zanetti, art project manager dello studio L2B Partners, ha illustrato la rilevanza della due diligence in ambito artistico per tutelare il collezionista dall'acquisto di opere problematiche ed infine il Dott. Alessandro Guerrini, amministratore delegato di Art Defender, ha concluso l'intervento esplicitando i vantaggi dei servizi correlati al mondo dell'arte, come il trasporto, l'assicurazione ed il deposito.

Per chi fosse interessato, la registrazione integrale del webinar è disponibile al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=Ioq_kw0l-DQ.

 


Il Primo Emendamento non salva Rothschild: risarcimento ad Hermès e divieto di conio e vendita degli NFT MetaBirkins

di Avv. Michela Zanetti

 

Tornano gli NFT nelle aule dei tribunali d’oltreoceano: questa volta a far da padrona è la blasonata ed iconica Birkin di Hermès, o meglio la sua versione NFT denominata “MetaBirkin” e realizzata dall’artista Mason Rothschild. Risale a qualche giorno fa la decisione con cui il giudice federale di Manhattan ha messo fine ad una battaglia legale durata un anno e mezzo, riconoscendo piena tutela al marchio della maison francese e vietando il conio e la vendita degli NFT MetaBirkins. Il provvedimento sembra destinato a costituire un importante precedente che fa approdare nel mondo dei collectibles e degli NFT il tema relativo all’utilizzo di marchi celebri in un’opera altrui.

Il caso

Nel 2021 l’artista Sonny Estival, in arte Mason Rothschild, coniava e lanciava in alcuni marketplace digitali una collezione di cento NFT denominati “MetaBirkin”: si trattava di borse in tutto e per tutto simili alla celeberrima icona di Hermès, solo più colorate e ricoperte di pelliccia (sempre, rigorosamente, digitale). Il successo degli NFT MetaBirkins fu incredibile (ed inspiegabile): in pochissimo tempo, il ricavato delle vendite superò il milione di dollari. Eppure Hermès con questi NFT non c’entrava proprio nulla, anzi: nessun legame tra la casa di moda e il signor Estival, nessuna licenza, nessuna partnership. Così, all’inizio del 2022, Hermès interveniva per porre fine all’attività di questo “speculatore digitale” e tutelare, una volta per tutte, il proprio marchio dal rischio di confusione ed annacquamento. Rothschild replicava alle accuse di Hermès appellandosi al Primo Emendamento della Costituzione Americana ed invocando il proprio diritto a creare arte basandosi su una personale “reinterpretazione del mondo”: in altre parole, Rothschild affermava che le sue borse altro non erano se non una caricatura delle “cugine” del mondo reale, la rappresentazione di un gesto artistico di critica verso il mondo dei beni di lusso. Per nulla convinto da questa teoria, Hermès citava in giudizio Rothschild per contraffazione di marchio, concorrenza sleale e cybersquatting. Dopo l’ordinanza dello scorso due febbraio del giudice Rakoff, la questione veniva rimessa alla giuria per il verdetto finale. Quest’ultima dichiarava Rothschild un truffatore (uno swindler per l’esattezza) e riconosceva a Hermès un risarcimento di 133mila dollari, rilevando la reale sussistenza di confusione ed agganciamento nonché l’annacquamento del marchio della nota casa di moda francese. Qualche giorno fa, la sentenza definitiva: il Giudice ha decretato il divieto di conio e vendita degli NFT MetaBirkins e ordinato a Rothschild di trasferire il dominio www.metabirkins.com a Hermès e restituire tutti i profitti ricavati dalla vendita degli NFT MetaBirkins.

La questione sottesa al caso: utilizzo di un marchio celebre in un’opera altrui

Dalla nascita della pop art ai giorni nostri possiamo contare numerosi esempi di opere d’arte in cui è stato utilizzato un marchio celebre: si pensi, solo per citarne un paio, alla Big Campbell di Andy Warhol, esposta al MoMA di New York, o alla Coca Cola di Mario Schifano. Tuttavia, quando ciò accade, la domanda che ci si pone è sempre la stessa: utilizzare un marchio celebre in un’opera avente valore artistico è lecito o configura un’ipotesi di contraffazione? Negli anni, la giurisprudenza - comunitaria e americana - ha cercato di rispondere a questo interrogativo, effettuando attenti bilanciamenti on a case by case basis tra la tutela della proprietà industriale e la tutela della libertà artistica, dimostrandosi tendenzialmente favorevole a quest’ultima.

Il legislatore comunitario è intervenuto sul punto nel considerando 27 della Direttiva (UE) 2015/2436 e nel considerando 21 del Regolamento (UE) 2015/2424, affermando che “è opportuno che i diritti esclusivi conferiti dal marchio d'impresa non permettano al titolare di vietare l'uso da parte di terzi di segni o indicazioni utilizzati correttamente e quindi conformemente alle consuetudini di lealtà in campo industriale e commerciale. [...] L'uso di un marchio d'impresa da parte di terzi per fini di espressione artistica dovrebbe essere considerato corretto a condizione di essere al tempo stesso conforme alle consuetudini di lealtà in campo industriale e commerciale. Inoltre, la presente direttiva dovrebbe essere applicata in modo tale da assicurare il pieno rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, in particolare della libertà di espressione”.

Capire la portata e lo scopo dell’utilizzo del marchio celebre all’interno di un’opera altrui diventa senz’altro fondamentale per verificarne la liceità o meno (il marchio rappresenta solo uno degli elementi dell’opera o ne costituisce il cuore? Il marchio viene citato in un contesto diverso rispetto a quello di riferimento o nel medesimo? il marchio viene richiamato nell’opera con il solo scopo di trarre profitto dalla sua celebrità? Il richiamo e l’utilizzo del marchio nell’opera rischiano di confondere i consumatori sull’identità del prodotto e sulla sua origine?) e bilanciare la tutela offerta dal diritto industriale con la tutela della libertà espressiva artistica.

Oltreoceano si possono annoverare precedenti illustri sul tema. Si pensi al caso Rogers v Grimaldi, per esempio. In questo caso, Grimaldi, produttore della pellicola “Ginger e Fred” firmata nel 1986 dal regista Federico Fellini, era stato citato in giudizio dall’attrice Ginger Rogers per lesione del proprio diritto al nome e alla privacy. La Rogers sosteneva che l’utilizzo del proprio nome nel titolo del film inducesse il pubblico a credere che il contenuto della pellicola fosse stato da lei stessa autorizzato o co-prodotto. Nella sentenza, la Corte aveva stabilito che la protezione del Primo Emendamento è esclusa (i) se il titolare del marchio/nome dimostra che l'uso all’interno dell’opera non è artisticamente rilevante o (ii) se il marchio/nome è usato per ingannare esplicitamente il pubblico circa la fonte o il contenuto dell'opera stessa (queste condizioni sono note oggi come “Rogers Test”). Su queste basi, la Corte aveva respinto le accuse mosse dalla Rogers, affermando che l’accoglimento delle sue richieste avrebbe ingiustificatamente limitato il diritto all'espressione artistica del regista. Questo precedente è stato invocato anche nel caso in esame: la difesa di Rothschild, infatti, ha cercato di difendersi dalle accuse di Hermès insistendo sulla tutela garantita dal Primo Emendamento alla libertà di espressione artistica, chiedendo l’applicazione proprio del “Rogers test”. In altre parole, secondo Rothschild il marchio sarebbe stato utilizzato meramente espressione artistica e non come indicatore di provenienza del bene. Sul punto, se da un lato il Giudice Rakoff si era dimostrato favorevole a considerare l’utilizzo come espressione artistica, dall’altro - in forza di alcune prove presentate nel corso del processo che avevano confermato la mala fede e l’intento speculativo del progetto di Rothschild - aveva statuito che "in alcuni casi, l'interesse pubblico ad evitare la concorrenza sleale o il rischio di confusione nei consumatori circa l’origine di un prodotto supera qualsiasi questione relativa alle libertà di cui al Primo Emendamento”. La questione era stata quindi rimessa alla giuria, che, pur senza escludere il carattere artistico dell’uso, aveva confermato l’utilizzo ingannevole del marchio da parte di Rothschild.

Conclusioni

Nel caso in esame, i giudici e la giuria non hanno avuto dubbi nel respingere la tesi difensiva di Rothschild, che con la sua condotta ha tentato di ingannare i consumatori, sfruttando la notorietà commerciale del marchio Birkin per promuovere un progetto speculativo di natura finanziaria (sarebbe stato Rothschild stesso ad affermare che la vendita degli NFT MetaBirkins era un modo per “get rich quick”). Il divieto di conio e vendita degli NFT segna la fine definitiva della vicenda. La decisione rappresenta un importante precedente in merito alla questione sulla liceità dell’utilizzo di un marchio celebre in un’opera altrui, e più in generale sulla tutela della proprietà industriale che approda quindi definitivamente nel complesso mondo del metaverso e degli NFT.

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Prince, Warhol e il fair use: qualche riflessione sul caso Andy Warhol Foundation vs Lynn Goldsmith

di Avv. Michela Zanetti

 

Prince, Andy Warhol e il fair use: una combinazione perfetta che rischia di far parlare di sé ancora per molto tempo. Nella decisione resa lo scorso 18 maggio, la Corte Suprema USA, infatti, ha applicato in maniera restrittiva la dottrina del fair use, aprendo un vaso di pandora destinato a sollevare reazioni discordanti nel mondo del diritto (e) dell’arte oltreoceano.

Il caso

Nel 1981, la fotografa professionista Lynn Goldsmith veniva incaricata da Newsweek di effettuare un servizio fotografico sull’allora emergente Prince Rogers Nelson (in arte “Prince”): una delle foto veniva scelta per essere pubblicata sulla rivista assieme ad un articolo sul cantante. Nel 1984, la Goldsmith concedeva in licenza a Vanity Fair una delle foto di Prince come artist reference for an illustration, limitandone la concessione ad un unico utilizzo. Vanity Fair commissionava l’illustrazione ad Andy Warhol: quest’ultimo, partendo dalla foto licenziata, creava un ritratto di Prince in serigrafia viola (“Purple Prince”), che veniva pubblicato nel numero di novembre 1984 di Vanity Fair. Oltre a “Purple Prince”, tenendo come base di partenza la foto della Goldsmith, Warhol creava una serie di ulteriori 15 opere, oggi conosciute come “Prince Series”, a quanto pare all’insaputa della fotografa. Dopo la morte di Prince, nel 2016, la Condè Nast, parenting company di Vanity Fair, chiedeva alla AWF di riutilizzare l’illustrazione “Purple Prince” del 1984 per realizzare un numero speciale commemorativo del defunto musicista. In quel frangente, la Condè Nast veniva a conoscenza dell’esistenza di un’intera serie di illustrazioni dedicate a Prince e, tra tutte, sceglieva di pubblicare un’opera diversa, la “Orange Prince”: quest’ultima veniva, quindi, licenziata alla Condè Nast per circa $ 10 dollari e successivamente pubblicata su Vanity Fair, senza che nulla fosse corrisposto alla fotografa Lynn Goldsmith.

Il processo

Appreso della pubblicazione di “Orange Prince” su Vanity Fair, la Goldsmith si rivolgeva immediatamente alla AWF per contestarle la violazione del copyright. A sua volta, la AWF, convinta di aver agito entro i limiti di protezione del fair use, citava in giudizio la Goldsmith avanti alla Corte Distrettuale. Inizialmente, nel 2019, la Corte Distrettuale, esaminati i quattro fattori di fair use indicati dal §107 del Copyright Act, si pronunciava in modo favorevole alla AWF. La Goldsmith impugnava il provvedimento avanti alla Corte d'Appello: nel 2021, i giudici, ritenendo, al contrario, che tutti e quattro i fattori di cui §107 del Copyright Act fossero da interpretarsi in maniera favorevole alla fotografa, ribaltava completamente la decisione della Corte Distrettuale. Alla AWF non restava che adire la Suprema Corte, questa volta invocando l’applicabilità soltanto del primo criterio. La fondazione, non otteneva, tuttavia, il successo sperato: la Suprema Corte negava l’applicazione della dottrina del fair use e decretava la violazione del copyright in capo a AWF.

La dottrina del fair use

La dottrina giuridica del fair use trova ampia applicazione oltreoceano, dove rappresenta uno dei fondamenti in materia di copyright. Codificata nel § 107 del Copyright Act, essa si traduce in una sorta di eccezione che consente, in presenza di determinati requisiti, l'uso senza licenza di opere protette dal diritto d'autore. Il §107 delinea la cornice entro cui è possibile parlare di fair use, indicando i quattro fattori da tenere in considerazione per valutare se un determinato uso possa dirsi fair o meno. Si tratta di: a) oggetto e natura dell’uso; b) natura dell’opera protetta; c) rapporto tra “porzione” utilizzata dell’opera protetta rispetto al suo insieme; d) effetto dell’uso sul mercato potenziale o sul valore dell'opera protetta. Con riguardo al primo punto, vi rientrano senz’altro le ipotesi in cui l’utilizzo di un’opera altrui possa definirsi “trasformativo”: ciò si verifica quando l’opera “originaria” viene trasformata, appunto, aggiungendovi qualcosa di nuovo che ne cambi il significato e che impregni l’opera “derivata” di un messaggio diverso, a volte addirittura opposto (è il tipico caso, ad esempio, della parodia).

La decisione della Suprema Corte

Tornando al caso in esame, i giudici della Suprema Corte, quasi all’unanimità (sette contro due), hanno ritenuto che la concessione in licenza alla Condè Nast da parte della AWF dell’opera “Orange Prince” non rientri nell’ambito di applicazione della dottrina del fair use, configurando piuttosto un utilizzo lucrativo e concorrenziale dell’opera fotografica originaria, lesivo del copyright riconosciuto in capo alla sua autrice. La Corte ha ritenuto che lo sfruttamento commerciale dell’opera escluderebbe di per sé l’applicabilità del primo criterio indicato dal § 107 del Copyright Act. I Giudici si sono chiesti se l’opera di Warhol fosse trasformativa rispetto al ritratto originario, rispondendosi in maniera negativa: il fine (celebrativo) e l’uso (commerciale) di entrambe le opere risultava il medesimo (le due opere si trovano, secondo la Corte, sul medesimo piano, in competizione tra loro). Di fronte alle critiche mosse da due giudici del collegio, che hanno fortemente denunciato la pericolosità di tale precedente che potrebbe creare una grave compressione della dottrina del fair use e, più in generale, della libertà espressiva creativa (quasi fosse l’inizio della fine della appropriation art), la Corte ha ribadito che l’applicazione della dottrina del fair use tutela in primis la creatività dell’artista “originario”, di cui non può mai sacrificare o comprimere i diritti d’autore; inoltre, ha sottolineato la necessità di una valutazione molto accurata circa l’applicabilità o meno del fair use ogni qualvolta l’opera successiva abbia uno scopo commerciale e lucrativo.

Sicuramente questa decisione è destinata a far parlare di sé ancora per molto tempo e non è escluso che possa avere anche delle ripercussioni sulla tutela autoriale anche di altri ordinamenti, seppur distanti dai sistemi di common law.

 

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Utilizzo e riproduzione di beni culturali: Gallerie dell’Accademia contro Ravensburger sul puzzle dell’Uomo Vitruviano

di Avv. Michela Zanetti

 

Nel novembre scorso, all’esito di un giudizio cautelare instaurato davanti al Tribunale di Venezia, il Ministero della Cultura e le Gallerie dell’Accademia di Venezia hanno ottenuto l’inibitoria nei confronti dell’azienda tedesca Ravensburger all’utilizzo per scopi commerciali dell’immagine e della denominazione dell’opera “Uomo Vitruviano” di Leonardo da Vinci. La Ravensburger, infatti, avrebbe sfruttato commercialmente l’immagine dell’opera leonardesca riproducendola sui suoi puzzle, senza alcuna autorizzazione da parte dell’istituto museale e senza aver corrisposto alcun canone o corrispettivo per il suo utilizzo.

Il nostro ordinamento riconosce piena tutela all’immagine ed alla denominazione dei beni culturali, la cui riproduzione è disciplinata dagli articoli 107-109 del D.lgs 42/2004. Nello specifico, la normativa prevede che la riproduzione di un bene culturale per finalità commerciali sia subordinata (i) al rilascio di un’autorizzazione da parte dell’amministrazione che ha in custodia il bene ex art. 107, 1 comma (autorizzazione che potrà essere resa solo all’esito di una valutazione di compatibilità tra l’utilizzo richiesto e la destinazione culturale/carattere storico-artistico del bene stesso) e (ii) al versamento di un canone di concessione per tale utilizzo, ex art. 108 comma 1 e 2. Entrambi i requisiti sono necessari affinché la riproduzione a scopo di lucro possa definirsi legittima. Il legislatore ha previsto, inoltre, alcune ipotesi in cui i beni culturali possono essere riprodotti o duplicati senza autorizzazione, per le quali è ovviamente esclusa la finalità commerciale (art. 108 comma 3 e 3bis).

Nel caso in esame, il Tribunale ha accolto la tesi delle ricorrenti, secondo cui la condotta di Ravensburger sarebbe lesiva oltre che degli articoli 6, 7 e 10 del Codice Civile (diritto e tutela al nome e all’immagine) anche del “Regolamento per la riproduzione dei beni culturali in consegna alle Gallerie dell’Accademia di Venezia”, redatto proprio in conformità agli artt. 107-109 del Codice dei Beni Culturali; in ragione di tali violazioni, il Tribunale ha definito irrimediabile il danno perpetrato ai danni dell’opera “Uomo Vitruviano” da parte di Ravensburger per averne quest’ultima riprodotto “indiscriminatamente” l’immagine a fini commerciali. La condotta di Ravensburger avrebbe determinato sia uno svilimento dell’immagine e della denominazione del bene culturale che una perdita economica a danno delle autorità ricorrenti. Affermano i giudici “[…] tale condotta appare costituire illecito determinante un danno risarcibile ex artt. 2043 e 2059 c.c., laddove il danno è costituito, in primo luogo, dallo svilimento dell’immagine e della denominazione del bene culturale (perché riprodotti e usati senza autorizzazione e controllo rispetto alla destinazione) e, in secondo luogo, dalla perdita economica patita dall’Istituto museale (per il mancato pagamento del canone di concessione e dei corrispettivi di riproduzione)”. Pertanto, il Tribunale di Venezia ha inibito a Ravensburger Verlag GmBH e Ravensburger S.r.l l’utilizzo dell’immagine e della denominazione dell’opera “Uomo Vitruviano” di Leonardo da Vinci per scopi commerciali, in qualsiasi forma e in qualunque prodotto e/o strumento, anche informatico sui propri siti internet e su tutti gli altri siti e social network di loro competenza, prevedendo altresì il pagamento di una penale di € 1.500 per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento.

Sebbene non si tratti dell’unica decisione in tema di riproduzione illecita di beni culturali (si pensi alla recente pronuncia del Tribunale di Firenze sull’illecito utilizzo dell’immagine del David di Michelangelo da parte di una nota rivista o a quella del Tribunale di Palermo sullo sfruttamento dell’immagine del Teatro Massimo), questa decisione risulta particolarmente significativa perché sancisce lo status di norme di applicazione necessaria, ex art. 17 L. 218/95, delle disposizioni del Codice dei Beni Culturali, decretandone la possibile applicazione oltre i confini nazionali, nei confronti di soggetti stranieri che operano all’estero e online. Secondo i Giudici veneziani “il Codice italiano rappresenta un unicum a livello europeo proprio in considerazione del fatto che, con la sua adozione, il Legislatore ha inteso tutelare al meglio un interesse ritenuto essenziale per lo Stato italiano (notoriamente famoso in tutto il mondo soprattutto per il suo immenso patrimonio storico-artistico e culturale, valore costituzionale riconosciuto all’art. 9 Cost. e identitario della collettività in una dimensione di fruizione pubblica), divenendo dunque il rispetto delle disposizioni codicistiche –ivi compreso l’art. 108, avente dunque carattere imperativo similmente alle altre disposizioni - assolutamente cruciale per la salvaguardia dell’interesse pubblico, tanto sociale quanto economico (sul punto, la Corte di Giustizia ha già avuto modo di affermare che “conservazione del patrimonio storico ed artistico nazionale possono costituire esigenze imperative che giustificano una restrizione della libera prestazione dei servizi” sent. del 21.02.1991, C- 180/89).

Recentemente è insorta un’interessante controversia tra le Gallerie degli Uffizi e la maison francese Jean Paul Gaultier, in tema di illecito utilizzo dei beni culturali. In questo caso, la nota casa di moda aveva commercializzato una collezione di vestiti ed accessori denominata “Le Musée”, su cui era riprodotta l’immagine della “Venere” di Botticelli, utilizzata senza preventiva autorizzazione né corresponsione di alcun canone. Gli Uffizi avevano intimato alla maison francese il ritiro dal mercato dei capi della collezione o, in alternativa, la regolarizzazione dell’utilizzo tramite un accordo con il museo. Tuttavia, data l’indifferenza della Jean Paul Gaultier alle richieste del museo, gli Uffizi erano stati costretti ad agire in giudizio per far valere le proprie pretese. Bisognerà attendere ancora un po’ per conoscere l’esito della controversia e quali misure verranno applicate per la tutela del nostro patrimonio culturale.

 

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Scimmie annoiate, scimmie plagiate: la vittoria di Yuga Labs contro Ryder Ripps

di Avv. Michela Zanetti

 

Ad annoiare troppo le scimmie finisce che te le plagiano: per questo motivo, Yuga Labs, società creatrice di The Bored Ape Yacht Club, ha denunciato l’artista Ryder Ripps (ed il suo collaboratore Jeremy Cahen) per aver coniato e venduto una serie di NFT denominata RR/BAYC repliche degli originali NFT Bored Ape.

Facciamo un passo indietro e, per chi non lo sapesse, vediamo in cosa consiste il Bored Ape Yacht Club: si tratta di una collezione di diecimila NFT, rilasciata tra aprile e maggio 2021, dalla società Yuga Labs. Ogni NFT rappresenta una scimmia (Ape) generata dalla combinazione di 170 caratteristiche scelte in maniera casuale. Dopo la prima settimana di prevendita, la notte del 1° maggio 2021 la collezione è andata sold out. La fama di questi collectibles è stata sancita dal mercato secondario: si pensi che a settembre 2021, ovvero solo tre mesi dopo il loro rilascio, un lotto di 101 Ape è stato venduto da Sotheby’s per 25 milioni di dollari. Sempre le Ape hanno sbancato anche la prima Sotheby’s Natively Digital 1.2, con una vendita pari a 3,4 milioni di dollari. Un aspetto sicuramente interessante di questi NFT è dato dai diritti e privilegi riconosciuti in capo ai loro proprietari e che ne hanno sancito, sin da subito, il ruolo di status symbol: essere titolari di un NFT Bored Ape, infatti, consente di entrare a far parte del relativo Club esclusivo, con tutti i vantaggi a ciò connessi. Inoltre, ai titolari di NFT Bored Ape vengono riconosciuti diritti e libertà creative su ogni singolo avatar acquistato, ovvero una sorta di diritto di sfruttamento commerciale della propria scimmia (ma, attenzione, non del marchio BAYC).

Tornando alla vicenda in questione, nel maggio 2022 l’artista Ryder Ripps coniava una collezione “parallela” di NFT, denominata RR/BAYC, in tutto e per tutto simile a quella ufficiale. Ripps avrebbe sfruttato la notorietà degli NFT BAYC per commercializzare i propri RR/BAYC, inducendo il pubblico a credere che le due collezioni fossero in qualche modo connesse o affiliate. Di fronte alle contestazioni di Yuga, Ripps si difendeva sotto lo scudo della appropriation art, adducendo di aver agito per protesta contro il mondo degli NFT e dei Bored Ape e chiarendo come fosse ben noto al pubblico che la sua collezione fosse diversa da quella ufficiale. Niente confusione, quindi, bensì solo l’intento di lanciare un messaggio artistico “diverso”. La critica di Ripps alle Bored Ape, infatti, risaliva al novembre 2021, con il lancio di una campagna mediatica contro le “Yuga scimmie”, accusate di contenere una simbologia nazi-razzista troppo evidente.

Nel luglio 2022, Yuga Labs si rivolgeva alla Corte distrettuale della California per veder tutelato, in primis, il proprio marchio, ai sensi del Trademark Act (Lanham Act). Yuga contestava inoltre falsa denominazione di origine, cybersquatting e concorrenza sleale. Ripps e Cahen presentavano una serie di eccezioni, tra cui il fatto che l'uso dei marchi BAYC fosse protetto dal Primo Emendamento e dal fair use.

Nel provvedimento, la Corte californiana si è interrogata sulla possibilità che gli NFT rientrino tra i "prodotti" tutelati dal Lanham Act. La risposta è stata affermativa e pertanto gli NFT, pur nella loro essenza virtuale ed intangibile, vengono considerati a tutti gli effetti “beni” ai sensi del Lanham Act (nel testo della sentenza, che richiama anche quanto sostenuto anche della sentenza Hermès International v. Rothschild, si afferma che “intangibility does not exclude NFTs from having other characteristics of ‘goods,’ including being individually transferrable between owners, storable for indefinite periods of time, exclusively owned by a single owner, and distinguishable based on their source.”)

Altra importante questione affrontata nel provvedimento riguarda il cybersquatting. La Corte ha affermato che può definirsi cybersquatter colui che “knowingly obtains from a registrar a domain name consisting of the mark or name of a company for the purpose of ransoming the right to that domain name back to the legitimate owner for a price.” Establishing a cybersquatting claim requires the plaintiff to show that “(1) the defendant registered, trafficked in, or used a domain name; (2) the domain name is identical or confusingly similar to a protected mark owned by the plaintiff; and (3) the defendant acted with bad faith intent to profit from that mark [1]”. Nel caso in esame, Ripps e Cahen avevano registrato ed utilizzato i nomi di dominio https://rrbayc.com/ e ttps://apemarket.com/, contenenti il marchio BAYC e il nome (bored) APE: ciò ha portato la Corte ha ritenere che i nomi utilizzati fossero uguali (o perlomeno simili) al marchio di Yuga Labs, riconoscendo altresì la mala fede in capo a Ripps e Cahen (si pensi che durante la registrazione di questi nomi a dominio entrambi avevano nascosto le proprie identità).

La vicenda giudiziaria ha trovato un primo punto di arrivo soltanto nell'aprile di quest'anno: la Corte, ritenendo validi e tutelabili i marchi utilizzati da Yuga Labs e ritenendo altresì che la condotta di Ripps e Cahen fosse tale da ingenerare confusione nel pubblico di riferimento, ha concesso a Yuga il provvedimento sommario richiesto in corso di causa. Nel provvedimento si dichiara che l’uso del marchio BAYC in relazione agli NFT creati da Ripps e ai relativi nomi a dominio costituisce una falsa denominazione di origine ai sensi del Lanham Act nonchè un'ipotesi di cybersquatting.

[1] Trad. cortesia: (qualcuno che) ottiene consapevolmente da un registrar un nome di dominio costituito dal marchio o dal nome di un'azienda allo scopo di riscattare il diritto a tale nome di dominio al legittimo proprietario dietro pagamento di un prezzo". Per stabilire un reclamo per cybersquatting è necessario che il ricorrente dimostri che "(1) il convenuto ha registrato, trafficato o usato un nome di dominio; (2) il nome di dominio è identico o confusamente simile a un marchio protetto di proprietà del ricorrente; e (3) il convenuto ha agito in mala fede con l'intento di trarre profitto da tale marchio.

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Modigliani e i falsi di Genova: tutti assolti e otto opere dichiarate false

di Avv. Michela Zanetti

 

È il marzo 2017 quando a Genova, nell’appartamento del Doge di Palazzo Ducale, apre al pubblico una mostra dedicata al grande maestro livornese Amedeo Modigliani e a Moise Kisling: 70 opere esposte provenienti da importanti musei internazionali e prestigiose collezioni private. Potenzialmente un successo, nei fatti un disastro: la mostra viene chiusa anticipatamente il 13 luglio a seguito del sequestro disposto dalla Procura di Genova di ben 21 opere, tutte sospettate di essere dei falsi (in corso di giudizio, le perizie dell’accusa dichiareranno che solo 20 sarebbero “grossolanamente false”, ndr). Il fatto che a denunciarne la presunta non autenticità fossero nomi illustri del mondo della critica contribuiva ad accrescere la risonanza mediatica della vicenda. Sei (scesi poi a cinque, ndr) gli imputati su cui pendeva l’accusa di truffa aggravata, messa in circolazione di opere false e riciclaggio. Secondo la ricostruzione della Procura, le opere erano state esposte per poterne accrescere il valore economico sul mercato in vista di una successiva rivendita. Un processo svolto a colpi di perizie, conclusosi solo qualche giorno fa con l’assoluzione di tutti gli imputati e la conferma che solo 8 tra le opere originariamente sequestrate sarebbero effettivamente dei falsi.

Non vi sono dubbi che quello che si è recentemente concluso sia solo il primo capitolo di una saga giudiziaria che si prospetta molto lunga: mentre restiamo in attesa di leggere le motivazioni della sentenza, possiamo solo chiederci quali saranno le sorti dei soggetti che hanno subito una forte lesione dei propri diritti di immagine (si pensi, fra gli altri, alla Fondazione Palazzo Ducale) oppure a quali azioni intraprenderanno gli otto collezionisti che, in esecuzione della condanna, dovranno apporre sulle proprie opere la dicitura “Opera falsa non attribuibile ad Amedeo Modigliani”. Più di ogni altra cosa, tuttavia, questa vicenda porta nuovamente alla luce problematiche che ormai da troppo tempo affliggono il mercato dell’arte, come l’importanza di condurre una adeguata due diligence (cfr. "Gli accorgimenti da adottare nell’acquisto di un’opera d’arte") sulle opere, unico vero strumento per valutarne o meno l’autenticità, oggi ancora troppo spesso trascurato ed oscurato dall’utilizzo di criteri soggettivi, non scientifici, influenzati dalla notorietà di chi redige l’expertise (e, a tal proposito, si pensi alle “battaglie” che ancora vengono ingaggiate tra i vari esperti di un determinato artista).

Ad ogni modo, che le vicende legate a Modigliani siano destinate a creare piccoli terremoti nel mondo dell’arte è cosa nota. Non si può non ricordare, a tal proposito, l’episodio conosciuto come “la beffa del 1984”: mentre Livorno festeggiava il centenario della morte del maestro, nell’estate del 1984, vennero ritrovate nel Fosso Mediceo tre sculture a forma di testa che periti ed esperti attribuirono alla mano di Modì. Una vecchia leggenda narrava, infatti, che nel 1909 Modigliani avesse gettato nel fossato alcune sculture ritenute esemplari poco soddisfacenti. In seguito al ritrovamento, che ebbe un’eco mediatica internazionale senza precedenti, per più di un mese esperti e critici d’arte gridarono al miracolo, osannando le sculture ritrovate. Fino a che tre studenti universitari (Michele Ghelarducci, Pietro Luridiana e Pierfrancesceo Ferrucci) dichiararono che l’opera non era altro che una loro creazione, realizzata con l’aiuto di un semplice Black and Decker: altro che ritrovamento miracoloso, si trattava soltanto di uno scherzo, anzi di una delle più grandi burle mai realizzate nel mondo dell’arte. Purtroppo, anche la presunta autenticità delle altre due sculture capitolò a distanza di qualche giorno: in questo caso l’autore si rivelò essere l’artista Angelo Froglia, il quale, tuttavia, dichiarò un intento più nobile rispetto a quello che aveva mosso il trapano dei tre studenti. Non una burla, quindi, bensì la volontà di lanciare un messaggio chiaro e quanto mai attuale: “Volevo semplicemente far sapere come nel mondo dell'arte l'effetto dei mass media e dei cosiddetti esperti possa portare a prendere grossissimi granchi” (cit). Messaggio su cui, anche oggi, è sempre utile riflettere.

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Una banana in cerca d’autore

di Avv. Michela Zanetti

 

Quando in arte si parla di banane il collegamento all’oramai iconica “Comedian” di Maurizio Cattelan è quasi scontato.
L’opera, realizzata nel 2019, ha fatto parlare di sé fin dagli esordi: qualcuno l’ha osannata, qualcuno l’ha denigrata, qualcuno l’ha mangiata (!!) e qualcuno ne ha rivendicato la paternità. Nello specifico, quest’ultimo “qualcuno” è stato l’artista statunitense Joe Morford, che ha intentato oltreoceano una causa civile nei confronti di Cattelan per violazione del diritto d’autore. Secondo Morford, infatti, Cattelan avrebbe “copiato” il concept di Comedian, prendendo ispirazione dalla propria opera “Banana and Orange”, realizzata nel 2000 e parte dalla serie “Sculptures: Still Life” (installazione realizzata con una banana e un’arancia attaccate con del nastro adesivo grigio a dei pannelli verdi).
La controversia è stata decisa proprio qualche giorno fa, quando le accuse di Morford sono state definitivamente respinte dal giudice federale di Miami. Nessun plagio né violazione del copyright, quindi, per Maurizio Cattelan: secondo il giudice Robert Scola non ci sarebbero prove sufficienti che l’artistar padovano abbia visto l’opera di Morford e se ne sia ispirato. Inoltre, il giudice, oltre ad aver rilevato importanti differenze tra le due opere, ha affermato che il concept delle stesse (ovvero una banana attaccata ad un piano verticale con del nastro adesivo) non può considerarsi protetto dalla legge sul copyright.
Esposta per la prima volta ad Art Basel Miami Beach nel 2019 allo stand del gallerista parigino Perrotin, “Comedian” è stata realizzata in tre esemplari, venduti per un totale di quasi 400 mila dollari. Il messaggio che l’artista ha voluto veicolare con questa installazione è quello di far riflettere il pubblico sul valore che al giorno d’oggi viene dato alle opere d’arte e, più in generale, agli oggetti.

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Prorogata la mostra “Klimt e l’arte italiana”

È in corso al Mart di Rovereto una mostra che riunisce i due capolavori “italiani” di Klimt, Giuditta II e Le tre età, affiancandoli alle opere di oltre quaranta grandi maestri italiani del primo Novecento che furono profondamente influenzati dall’artista austriaco: in occasione della Biennale di Venezia del 1910 e dell’Esposizione Internazionale di Roma del 1911, un’intera generazione di artisti, tra cui Vittorio Zecchin ed i giovani “dissidenti” di Cà Pesaro, Vito Timmel, Felice Casorati, Galileo Chini e Luigi Bonazza, finì per rinnovare il proprio linguaggio artistico sotto l’influsso della cultura mitteleuropea.
Lo stesso Klimt fu a sua volta erede della tradizione italiana: l’impiego della foglia oro, di elementi decorativi e della bidimensionalità rispecchia l’ispirazione dell’artista ai mosaici bizantini delle chiese ravennati e alle murrine veneziane che ebbe modo di osservare durante diversi viaggi nel nostro Paese.

Il percorso espositivo consta di 200 opere provenienti da collezioni pubbliche e private ed è interamente dedicato all’analisi delle influenze del padre della Secessione viennese sull’arte italiana: dalla pittura alla scultura, passando attraverso le arti decorative, è evidente come discipline differenti convivano sotto il riconoscibile segno dell’artista, i cui riferimenti sono visibili nei decori, nell’opulenza cromatica e nello stile.
L’arte italiana del suo tempo ha preso diversi elementi in prestito, conservando al contempo un carattere originale e dando vita ad inedite forme espressive: parliamo in primo luogo del Divisionismo, fenomeno artistico che si afferma in Italia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, che ne sconvolge l’uso del colore e della luce, dando luogo ad una rappresentazione affine all’estetica simbolista di Klimt. Le opere sono caratterizzate da linee sinuose, forme geometriche e colori luminosi, che rispecchiano la propensione dell’artista viennese all’ornamentale.
Lo spirito rivoluzionario di Klimt ha indubbiamente lasciato un’impronta nelle opere degli artisti italiani favorendo anche l’innovazione e la rottura con la tradizione, come nel caso del Futurismo e del fascino per il dinamismo e per la frenesia della vita moderna.

Gli artisti italiani del Novecento non furono dunque meri imitatori di Klimt, bensì ne furono ispirati reinterpretandone il linguaggio, con esiti del tutto nuovi e stupefacenti che potrete scoprire personalmente visitando la mostra, la cui apertura è stata prorogata fino al 27 agosto.

 


Arthur Duff celebra l'unicità insita in ciascuno di noi

Avete mai pensato di partecipare alla creazione di un’opera d’arte?

The Human Safety Net, la Fondazione del gruppo Generali dedicata a fornire sostegno a famiglie e rifugiati in difficoltà, ha trovato casa presso le Procuratie Vecchie di Piazza San Marco a Venezia e dal 14 aprile ospita un’opera di Arthur Duff intitolata “The Hungriest Eye. The Blossoming of Potential”: si tratta di un’installazione facente parte della mostra permanente “A World of Potential”, che consente ai visitatori di esplorare ed approfondire la conoscenza dei punti di forza insiti nel proprio carattere attraverso 16 diverse installazioni interattive, sia analogiche che digitali.

L’opera di Arthur Duff situata all’interno dell’Art Studio, uno spazio dedicato a mostre temporanee che ospitano opere di artisti la cui sensibilità e visione siano affini ai valori comunicati dalla Fondazione, trasforma i punti di forza dei visitatori, individuati precedentemente lungo il percorso, in una rappresentazione artistica sensazionale e irripetibile attraverso l’utilizzo di un sistema laser che crea forme uniche in un caleidoscopio di luci e colori. La finalità è quella di sottolineare e celebrare l’unicità che caratterizza ciascuno di noi e ci contraddistingue dagli altri. La presa di coscienza di questa stessa unicità, riprendendo i propositi di The Human Safety Net, dovrebbe aiutare le persone, talvolta emarginate, ad integrarsi nella società e a sfruttare le proprie potenzialità con consapevolezza, al fine di trovare il proprio posto nel mondo.

Uno dei punti di forza della mostra è indubbiamente la sua natura innovativa e interattiva, che permette ai visitatori di condurre un’esperienza unica durante la quale mettersi in gioco in prima persona e partecipare attivamente alla creazione di un’opera d’arte. Ma non si tratta di un’attività da sperimentare esclusivamente in chiave individuale, poiché l’individuo è chiamato a relazionarsi con l’altro nel momento in cui, terminati i trenta secondi di esposizione della propria composizione laser, essa può lasciare spazio alla rappresentazione di una nuova immagine al sopraggiungere del visitatore successivo. L’esperienza è dunque profondamente immersiva e personale ma al contempo presuppone la condivisione di uno spazio e di un momento di interazione con gli altri, all’interno di un dialogo che protegga sempre la libertà di espressione di ciascuno di noi.

 


Beni culturali e diritto all’immagine: storica sentenza del Tribunale di Firenze

di Avv. Michela Zanetti

 

L’utilizzo e la riproduzione dei beni culturali è ora come non mai al centro dell’attenzione dei media: dai molti interrogativi suscitati dall’utilizzo della Venere di Botticelli nella campagna “Open To Meraviglia” recentemente promossa dal Ministero del Turismo all’intervento normativo con cui il ministro Sangiuliano ha dettato le linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d'uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali (del D.M. 161/2023).

Proprio in questo scenario è giunta ieri una sentenza del Tribunale di Firenze con cui è stato dichiarato illegittimo l’utilizzo a scopi pubblicitari dell’immagine del David di Michelangelo; l’opera (“modificata col meccanismo della cartotecnica lenticolare e quindi sovrapposta all'immagine di un modello”) era stata riprodotta sulla copertina di una rivista edita da una nota casa editrice, senza alcun consenso da parte delle Gallerie dell’Accademia e senza il pagamento di alcun corrispettivo. Inoltre, la riproduzione dell’immagine attraverso la tecnica lenticolare avrebbe permesso alla società editoriale di accostare “insidiosamente e maliziosamente” l’immagine del David di Michelangelo a quella di un modello “così svilendo, offuscando, mortificando, umiliando l’alto valore simbolico ed identitario dell’opera d’arte ed asservendo la stessa a finalità pubblicitarie e di promozione editoriale”. Tutto ciò avrebbe determinato alle Gallerie un danno di carattere patrimoniale e non, per un importo complessivo di circa 50mila euro.

Sebbene il David abbia già fatto parlare di sé in passato nelle aule del Tribunale, la decisione in esame rappresenta la prima sentenza di merito sull’argomento, che sancisce a pieno titolo la tutela all’immagine dei beni culturali nel nostro Paese. Il Tribunale di Firenze ha, infatti, riconosciuto l’immagine dei beni culturali come espressione dell’identità culturale della Nazione e della sua memoria storica, tutelabile ex art. 9 della nostra carta costituzionale.

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