Beni culturali e diritto all’immagine: storica sentenza del Tribunale di Firenze
di Avv. Michela Zanetti
L’utilizzo e la riproduzione dei beni culturali è ora come non mai al centro dell’attenzione dei media: dai molti interrogativi suscitati dall’utilizzo della Venere di Botticelli nella campagna “Open To Meraviglia” recentemente promossa dal Ministero del Turismo all’intervento normativo con cui il ministro Sangiuliano ha dettato le linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d'uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali (del D.M. 161/2023).
Proprio in questo scenario è giunta ieri una sentenza del Tribunale di Firenze con cui è stato dichiarato illegittimo l’utilizzo a scopi pubblicitari dell’immagine del David di Michelangelo; l’opera (“modificata col meccanismo della cartotecnica lenticolare e quindi sovrapposta all'immagine di un modello”) era stata riprodotta sulla copertina di una rivista edita da una nota casa editrice, senza alcun consenso da parte delle Gallerie dell’Accademia e senza il pagamento di alcun corrispettivo. Inoltre, la riproduzione dell’immagine attraverso la tecnica lenticolare avrebbe permesso alla società editoriale di accostare “insidiosamente e maliziosamente” l’immagine del David di Michelangelo a quella di un modello “così svilendo, offuscando, mortificando, umiliando l’alto valore simbolico ed identitario dell’opera d’arte ed asservendo la stessa a finalità pubblicitarie e di promozione editoriale”. Tutto ciò avrebbe determinato alle Gallerie un danno di carattere patrimoniale e non, per un importo complessivo di circa 50mila euro.
Sebbene il David abbia già fatto parlare di sé in passato nelle aule del Tribunale, la decisione in esame rappresenta la prima sentenza di merito sull’argomento, che sancisce a pieno titolo la tutela all’immagine dei beni culturali nel nostro Paese. Il Tribunale di Firenze ha, infatti, riconosciuto l’immagine dei beni culturali come espressione dell’identità culturale della Nazione e della sua memoria storica, tutelabile ex art. 9 della nostra carta costituzionale.
È un falso solo perché lo dice l’Archivio? Il caso del dipinto di Josef Albers “Study for Homage to the Square”
di Avv. Michela Zanetti
In una sentenza del novembre 2021, la Corte d’Appello di Milano si è chiesta se l’opinione resa da archivi e fondazioni possa essere sufficiente a decretare, tout court, l’autenticità o meno di un’opera d’arte.
Oggetto del contendere era il dipinto «Study for Homage to the Square» attribuito, secondo quanto riferito dallo stesso proprietario, all’artista Josef Albers. L’opera, acquisita per eredità, era priva sia del certificato di autenticità che del numero di archiviazione. Nulla di anomalo, fintanto che il dipinto era rimasto appeso alle pareti dell’abitazione del suo proprietario. Tuttavia, quando un mercante d’arte mostrò interesse all’acquisto, l’opera fu sottoporta all’esame del legale rappresentante della Albers Foundation – fondazione istituita nel 1971 che si occupa di tutelare nel mondo il nome e le opere dell’artista. L’analisi (affidata esclusivamente all’esperienza e all’occhio allenato dell’espero) si rivelò disastrosa: il dipinto venne dichiarato falso e la firma apocrifa. Supportato dalla storica dell’arte della Fondazione, il legale rappresentante denunciò il proprietario del dipinto al nucleo Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale di Monza. All’esito del giudizio di primo grado, nell’ottobre 2020, l’opera fu confiscata e il proprietario condannato per ricettazione - n.d.r. poi assolto nel giudizio d’appello.
La sentenza venne impugnata dai legali dell’imputato, che insistevano sull’assenza dell’elemento oggettivo (assenza della prova certa della falsità) e soggettivo del reato (assenza del dolo eventuale). Secondo la ricostruzione della difesa, l’imputato non poteva avere alcuna reale consapevolezza della (presunta) falsità dell’opera, in forza dell’intrinseca storicità della stessa - purtroppo ignorata o, comunque, sottovalutata dall’analisi di Weber. Nello specifico, (i) il dipinto presentava alcune iscrizioni sul retro della tela riconducibili al padre del gallerista e, forse, allo stesso Albers, (ii) l’opera risultava inclusa in un volume dedicato all’artista, la cui prefazione era redatta proprio da Weber e (iii), infine, il dipinto era stato esposto in una mostra, ufficializzata nel sito internet della stessa Fondazione.
La Corte – consapevole del fatto che non sempre chi possiede un’opera d’arte è in grado di provarne l’autenticità, e che l’incertezza che da ciò ne deriva è elemento caratterizzante lo scambio di beni nel mercato dell’arte - si è interrogata su quale debba essere il peso effettivo dell’opinione resa da archivi e fondazioni nel determinare la non autenticità di un’opera, in considerazione anche del ruolo che tali enti ormai rivestono nel mercato dell’arte. Infatti, l’autorità riconosciuta ad archivi e fondazioni nel decretare l’autenticità o meno di un’opera d’arte deriva da una consuetudine instaurata e riconosciuta nel mercato dai suoi principali operatori (galleristi, case d’asta e mercanti d’arte) e che si fonda, di fatto, sulla credibilità e buona reputazione di cui godono tali enti. Tuttavia, archivi e fondazioni, quando sono chiamati a valutare l’autenticità o meno di un’opera, non fanno altro che esprimere delle opinioni che, pur se indubbiamente autorevoli, non godono di certezza assoluta né derivano dalla applicazione di una scienza esatta. Tali opinioni, piuttosto, conservano un’intrinseca soggettività ed un innegabile margine di discrezionalità e sono, pertanto, sempre modificabili e contestabili.
È quindi possibile che un solo occhio esperto, per quanto autorevole, sia in grado di decretare la non autenticità di un’opera d’arte? Si legge in sentenza: Il parere di un esperto, indipendentemente da quanto autorevole sia, può sempre essere messo in discussione da altro esperto o consulente. Occorre, infatti, tener conto della peculiarità dell’oggetto d’arte come oggetto di scambio, peculiarità che dipende principalmente dall’incertezza intrinseca della sua esatta identità e provenienza, che spesso dipendono da una valutazione, quella dell’esperto, che per quanto diligentemente resa, altro non è se non un giudizio, un’opinione, suscettibile come tale di mutamento.
I giudici milanesi sembrano aver preso consapevolezza del fatto che le opinioni sull’autenticità delle opere d’arte devono essere supportate da prove tecniche, storiche, scientifiche – in altre parole, da una attenta due diligence: solo così il destino di un’opera d’arte (autentica/non autentica) potrà essere affrancato dal parere di un unico soggetto/ente. Ciò a maggior ragione se si considera che, talvolta, tali enti possano trovarsi in conflitto di interessi con le parti coinvolte. Nel caso in esame, infatti, la Fondazione Albers si occupa anche di vendere al pubblico alcune opere dell’artista, esclusivamente attraverso rappresentanti autorizzati. Sul punto la Corte ha chiarito che il vaglio di attendibilità doveva essere ancora più penetrante in considerazione del fatto che l’Archivio, che possiede il monopolio sul rilascio dei certificati di autenticità, risulta altresì proprietario di opere e, quindi, inevitabilmente portatore di interessi economici sul mercato, dovendosi ipotizzare anche un potenziale conflitto d’interesse. La Fondazione Albers, difatti, come risulta espressamente dal suo sito web istituzionale, si occupa anche di vendere al pubblico un limitato numero di opere attraverso i suoi rappresentanti autorizzati.
La speranza è questa sentenza aiuti gli operatori del mercato dell’arte a comprendere la necessita e l’importanza di eseguire attente ed approfondite analisi e valutazioni sull’autenticità e provenienza delle opere che intendono scambiare, attraverso l’aiuto della professionalità di tecnici, storici dell’arte e legali.
Il Foppa “mascherato”: un recente caso in tema di annullamento in autotutela dell’attestato di libera circolazione
di Avv. Michela Zanetti
Risale allo scorso 3 aprile una nuova pronuncia del Tar Lazio in materia di annullamento in autotutela di un attestato di libera circolazione rilasciato dalla Soprintendenza di Genova qualche anno fa. Il provvedimento, datato settembre 2019, consentiva l’uscita dal territorio nazionale di un dipinto raffigurante un San Pietro su fondo oro, acquistato all’asta da una società svizzera per circa duemila euro. Ottenuto l’attestato, l’acquirente, che opera nel mercato dell’arte, aveva trasferito il dipinto all’estero per restaurarlo. Nel 2021, l’opera restaurata raggiungeva Christies’ New York per essere rivenduta in asta, con la descrizione “Pittore del XVII secolo: San Pietro Dipinto su tavola fondo oro cm. 47x40 – ALC (Genova) n. 18603 del 3.9.2019”. Tuttavia, durante le consuete valutazioni preliminari, gli esperti della casa d’asta newyorkese attribuivano l’opera al pittore bresciano Vincenzo Foppa, padre del Rinascimento lombardo, e ne stimavano il valore tra i 200 e i 300 mila dollari. La notizia approdava anche sui social e così, da alcune discussioni in un gruppo privato di Facebook, il Ministero veniva a conoscenza del riconoscimento del dipinto e della sua imminente vendita all’asta. Immediatamente, l’amministrazione si attivava tramite il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale per interrompere la procedura di vendita e annullava, in autotutela, ex art. 21 nonies L. n. 241/90, l’attestato di libera circolazione dell’opera, ordinandone altresì il rientro in Italia. Nella speranza di poter annullare tali provvedimenti, la società proprietaria del dipinto proponeva ricorso al Tar. Lo scorso aprile, il Tar dichiarava improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso principale e rigettava il ricorso per motivi aggiunti.
Non è poi così infrequente che l’amministrazione intervenga successivamente al rilascio di un attestato di libera circolazione per dichiararne l’annullamento tramite l’applicazione dell’istituto di cui all’art. 21 nonies della L. 241/90: si tratta del cosiddetto annullamento in autotutela, efficace retroattivamente, che può essere invocato laddove l’amministrazione, riesaminando il proprio operato, si accorga di un vizio esistente ab origine nel provvedimento. Il rimedio è esperibile in presenza di un interesse pubblico tale da giustificare l’annullamento dell’atto viziato. Il legislatore ha previsto un limite temporale all’esperibilità di tale rimedio, fissando un termine di dodici mesi (n.d.r. diciotto all’epoca della vicenda in oggetto) oltre il quale l’amministrazione non potrà più agire in autotutela (anche se l’applicabilità di tale termine anche agli attestati di libera circolazione non è poi così pacifica in giurisprudenza).
In che casi, quindi, l’amministrazione potrebbe voler annullare in autotutela un attestato di libera circolazione? Per fare qualche esempio, si pensi all’ipotesi in cui un’opera subisca un cambio di attribuzione (dapprima attribuita alla “bottega di” o alla “scuola di” e poi riconosciuta come di mano del maestro) oppure all’ipotesi in cui, appunto, un restauro sveli un’opera totalmente diversa rispetto a quella portata all’esame dell’amministrazione (il TAR Lazio in una pronuncia del 16.10.2018 parla addirittura di aliud pro alio); famoso il caso che ha visto coinvolto un dipinto di Giotto, originariamente attribuito ad un anonimo imitatore del XIX secolo e lasciato uscire dall’Italia che si è poi rivelato ascrivibile, in seguito al restauro, nientemeno che al grande maestro. Ancora, si potrebbe pensare all’ipotesi in cui un’opera venga riesaminata all’estero e si riveli essere di eccezionale rarità– si pensi al caso del dipinto Ritratto di Camillo Borghese di Francois Gérard, attualmente in giudizio, dove l’opera era stata presentata alla Soprintendenza di Bologna come dipinto ad olio su tela raffigurante ritratto virile, salvo rivelarsi poi come l’unico ritratto presente in Italia di Camillo Borghese, cognato di Napoleone.
Per quanto riguarda il caso in esame, le ragioni che hanno portato il Ministero a procedere con l’annullamento in autotutela si basano sul fatto che l’attestato di libera circolazione sarebbe stato rilasciato sulla base di un’istruttoria ritenuta insufficiente, svolta sulla base di una denuncia fuorviante, carente ed incompleta […]. L’opera sarebbe stata sottoposta all’esame della Commissione presso l’Ufficio Esportazione di Genova “imbruttita e “mascherata” […] Il cattivo stato di conservazione del dipinto, aggravato da pesanti ridipinture, e la mancata indicazione dei predetti elementi conoscitivi avrebbe indotto le Commissioni istruttorie interpellate […], a rilasciare il richiesto attestato sulla base di una rappresentazione carente ed incompleta dei fatti. Nonostante i numerosi motivi di ricorso presentati dal proprietario del dipinto, il Tar ha comunque ritenuto scevra da profili di illogicità e irragionevolezza la valutazione resa dall’amministrazione in conformità con i criteri fissati dal D.M. 537/2017 (nella fattispecie, qualità artistica e rarità) e pertanto ne ha escluso la sindacabilità in sede giurisdizionale, rigettando il ricorso.
Si tratta di questioni che fanno discutere e lasciano aperti molti interrogativi. In un mondo come quello dell’arte, la questione relativa all’attribuzione e alla provenienza (specialmente con riguardo alle opere più risalenti) porta in sé un’incertezza intrinseca, essendo spesso ancora affidata quasi esclusivamente alle opinioni degli esperti, per loro stessa natura modificabili ed opinabili. Uno strumento come quello dell’annullamento in autotutela rischia, quindi, di ingenerare ancora più incertezza e confusione nei soggetti che si trovano ad operare all’interno del mercato dell’arte. Forse il problema potrebbe essere in parte risolto a monte, ovvero fornendo alle amministrazioni gli strumenti per approfondire in maniera ancor più rigorosa la provenienza delle opere e la loro attribuzione, attraverso una attenta due diligence storico artistica. In tal modo si eviterebbe di dover “correre ai ripari” quando ormai l’opera ha già varcato i confini del nostro paese, con una maggior tutela di tutti gli interessi coinvolti.
Maurizio Cattelan vince la causa contro lo scultore Daniel Druet
di Avv. Michela Zanetti
È stato dichiarato inammissibile il ricorso con cui il ceroplasta francese Daniel Druet rivendicava la paternità di alcune opere firmate dall’artistar padovano Maurizio Cattelan. Con la decisione dello scorso 8 luglio, i giudici del Tribunale per la Proprietà Intellettuale di Parigi hanno infranto i sogni di onore e gloria di Daniel Druet.
A quanto pare, l’errore sembra sia stato quello di aver citato in giudizio non direttamente Maurizio Cattelan bensì soltanto la galleria Perrotin e l’istituto che dal 2016 al 2017 aveva esposto le opere dell’artista: considerato il tenore delle domande proposte e le richieste formulate (secondo i giudici Druet chiedeva il riconoscimento della paternità esclusiva di tutte le opere contestate), questa scelta avrebbe decretato l’inammissibilità del ricorso.
Il Tribunale francese ha altresì dichiarato che le opere in questione sono da attribuirsi esclusivamente al genio creativo di Cattelan, al quale deve essere riconosciuta anche l’ideazione dell’allestimento e del messaggio veicolato al pubblico. Nessun contributo artistico ed emotivo apportato dalla manodopera di Druet, quindi, che altro non sarebbe se non mero esecutore materiale delle istruzioni dell’artista. In altre parole, tali opere non sarebbero esistite senza Cattelan, mentre sarebbero esistite comunque senza Druet.
Si legge nella sentenza che è indiscusso che le precise direttive per allestire le sculture di cera in una specifica configurazione, relative in particolare al loro posizionamento all’interno degli spazi espositivi volti a giocare sulle emozioni del pubblico (sorpresa, empatia , divertimento, repulsione, ecc.), sono state emanate solo da Maurizio Cattelan senza Daniel Druet, non essendo in alcun modo in grado – né cercando di farlo – di arrogarsi la minima partecipazione alle scelte relative alla disposizione scenografica della presentazione delle dette sculture (scelta dell’edificio e dimensione della le stanze che assecondano il carattere, la direzione dello sguardo, l’illuminazione, persino la distruzione di un tetto in vetro o di un pavimento in parquet per rendere l’allestimento più realistico e suggestivo) o al contenuto del possibile messaggio contenuto nell’allestimento.
Una decisione che è stata definita “storica” dai legali della galleria Perrotin, poiché pare custodire e consacrare l’arte concettuale come supremazia dell’idea creativa dell’artista rispetto alla tecnica dell’esecutore. Il testo integrale della sentenza verrà pubblicato nei prossimi giorni.
La battaglia di Daniel Druet: quando la tecnica porta in Tribunale l’idea creativa
di Avv. Michela Zanetti
La battaglia legale tra lo scultore francese Daniel Druet e l’artista padovano Maurizio Cattelan affascina e spaventa il mondo dell’arte: un caso giudiziario dai grandi numeri - il risarcimento chiesto da Druet è pari a quasi 6 milioni di euro - e dai grandi nomi – sono coinvolti Cattelan per il tramite della Galleria Perrotin e l’istituto La Monnaie de Paris –, destinato a lasciare col fiato sospeso una vasta platea di spettatori per l’attualità delle tematiche coinvolte.
I fatti all’origine della vicenda – la denuncia di Druet contro il sistema dell’arte contemporanea
Daniel Druet e Maurizio Cattelan si conoscono verso la fine degli anni novanta al Musée Grévin, dove l’artista rimane affascinato dalle statue di cera realizzate dallo scultore. Colpito da tanto talento, Cattelan decide di commissionargli una decina di lavori, che sarebbero poi diventati i protagonisti di alcune tra le sue più celebri opere (si pensi alla statua di Papa Giovanni Paolo II colpito da un meteorite ne “La Nona Ora” o a quella di Adolf Hitler bambino inginocchiato in “Him”). Tuttavia, mentre la fama di Cattelan cresceva vertiginosamente, il nome di Druet riceveva ben poca gloria: la mano che aveva reso materiale l’idea creativa non otteneva riconoscimenti o menzioni di alcun tipo. In un’intervista di qualche anno fa[1], lo stesso Druet aveva dichiarato che l’ascesa di Cattelan fosse da ascriversi proprio al Papa Giovanni Paolo II e all’Hitler bambino di sua realizzazione. Lo scultore aveva definito “mediocri” le quotazioni dell’artista prima di tali opere e aveva espresso il desiderio di essere quantomeno menzionato come loro realizzatore.
Il fatto di essere stato completamente ignorato aveva spinto Druet, terminata la collaborazione con Cattelan, a realizzare un’opera-denuncia, dove l’artista veniva immortalato nell’atto di sbucare da un uovo. L’uovo era quello del cuculo, noto usurpatore di nidi altrui: con quest’opera ho voluto denunciare un sistema in cui l’artista non fa assolutamente niente, aveva affermato Druet.
La battaglia legale avviata nelle scorse settimane è, quindi, solo l’ultimo atto della denuncia di Druet contro il sistema dell’arte contemporanea, intrinsecamente concettuale, dove tecnica e manualità artigianale rimangono, inevitabilmente, nel retrobottega.
Le questioni di diritto sottese alla battaglia legale
Oggi Druet rivendica davanti ai giudici francesi la paternità di 8 opere di Cattelan. Per farlo, il ceroplasta fa leva sul fatto che le istruzioni inviate dall’artista per la realizzazione delle sculture fossero scarne e poco chiare: ciò avrebbe concesso a Druet di “metterci del suo”, ovvero un apporto creativo, a suo dire, non trascurabile. A ciò si aggiunga che, stando alle dichiarazioni di Perrotin, il rapporto di commissione tra i due non era mai stato regolamentato con un contratto ad hoc.
I giudici d’oltralpe dovranno, quindi, interrogarsi su chi sia realmente il soggetto cui spetta la paternità dell’opera, se l’artista che l’ha “concepita” oppure l’artigiano che l’ha resa materiale, o entrambi, dichiarandoli coautori.
In Italia, la creazione dell’opera, quale particolare espressione del lavoro intellettuale, è il titolo originario dell'acquisto del diritto di autore (art. 6 LdA). Nel caso in cui l’opera dell’ingegno sia frutto del contributo di più soggetti, viene in applicazione l’art. 10 LdA; la norma prevede che il diritto d’autore appartenga in comune a tutti i coautori qualora il loro contributo alla creazione sia indistinguibile ed inscindibile. In tal caso, le parti indivise si presumono di valore uguale, salvo la prova per iscritto di diverso accordo.
Lo spirito della norma non è certo quello di far condividere all’artista il proprio diritto d’autore su un’opera con tutti i soggetti che hanno contribuito alla sua realizzazione. Per quanto tecnicamente eccellenti, tali interventi non possono conferire alcuna tutela autoriale laddove si traducano in una mera esecuzione dell’opera creata ed ideata dalla mente dell’artista. Tuttavia, la distinzione tra “esecutore” e “artista/ideatore” diventa più controversa laddove l’esecutore conferisca all’opera, durante la sua realizzazione, il proprio apporto creativo.
Sul punto è interessante citare una decisione della Suprema Corte del 2011 con cui è stata riconosciuta la coautorialità tra un maestro vetraio e un artista: gli Ermellini avevano dichiarato il valore non confondibile della mano particolare di un maestro vetraio e dunque del suo apporto creativo, concludendo che la “mano inconfondibile” del maestro ha conferito il suo apporto artistico alla creazione dell’opera come ideata originariamente […]. Essendo i due rapporti analogamente creativi, la Corte aveva in questo caso dato applicazione all’art. 10 l.d.a., definendo i due contributi indistinguibili ed inscindibili. La Corte aveva posto attenzione anche alla peculiarità della materia utilizzata, il “vetro”, deducendo che l’artigianalità del maestro non potesse conferire solo un contributo tecnico alla realizzazione/esecuzione materiale dell’idea altrui: […] Il maestro, in quanto esperto della particolarità di questa medesima, e dunque dei processi chimici, ed delle reazioni che essa subisce nel processo di raffreddamento e di solidificazione, e pertanto della morfologia che essa tipicamente può assumere evocando suggestioni specifiche nel pubblico, in realtà contribuisce, con i necessari adattamenti e momento per momento, alla stessa ideazione, oltre che alla realizzazione, di ciò che viene realizzato […].
Anche la Francia vanta un precedente analogo e, forse, ben più illustre. Nel 1973, infatti, la Suprema Corte aveva riconosciuto allo scultore Richard Guino la co-autorialità delle opere in bronzo realizzate sotto la direzione di Pierre-Auguste Renoir, in forza del contributo artistico ed emotivo che lo scultore aveva apportato a tali opere.
A complicare il quadro della situazione, si aggiunga il fatto che il rapporto di commissione tra Druet e Cattelan non era stato regolamentato in alcun modo. Solo con un contratto scritto entrambi si sarebbero assicurati una maggiore tutela, regolamentando la commissione dell’opera ed i rispettivi diritti.
Conclusioni
Nei primi giorni di luglio i giudici francesi si pronunceranno sulle richieste di Druet. Se lo scultore dovesse riuscire a dimostrare l’inconfondibilità della sua mano ed il proprio apporto creativo nelle opere di Cattelan rischierebbe di vedersi riconosciuto un risarcimento davvero milionario e affonderebbe un duro colpo anche al sistema dell’arte contemporanea, da lui tanto avversato. Non ci resta che attendere la sentenza d’oltralpe, con il fiato sospeso.
[1] Il video integrale dell’intervista a Daniel Druet è pubblicato sul sito Artslife all’indirizzo https://artslife.com/2020/09/24/maurizio-cattelan-daniel-druet-arte-in-italiano/
Quando uno studio metodologico sulle opere di un artista ne viola i diritti d’autore: il caso degli eredi di Mario Schifano contro la Fondazione MS Multistudio
di Avv. Michela Zanetti
È stato accolto dalla Corte di Cassazione il ricorso presentato dagli eredi di Mario Schifano contro la Fondazione M.S. Multistudio: con ordinanza n. 4038 dell’8 febbraio 2022 la Corte ha stabilito che lede il diritto d’autore di un artista (o dei suoi eredi) un catalogo o uno studio metodologico (in qualunque forma sia realizzato) in cui vengano riprodotte integralmente le sue opere e che si ponga in concorrenza rispetto all’utilizzo economico riservato ai titolari del diritto.
Oggetto del contendere un catalogo denominato “Studio metodologico riguardante la catalogazione informatica dei dati relativi alle opere di Mario Schifano presenti presso la Fondazione”, realizzato dalla Fondazione. La pubblicazione e la riproduzione del catalogo informatico (6 volumi per un totale di 24mila opere riprodotte) non era stata accolta di buon grado dagli eredi dell’artista, che avevano agito in giudizio denunciando la violazione dei diritti d'autore sulle opere riprodotte, l’illecito sfruttamento del nome di Schifano e l'usurpazione delle prerogative derivanti dai diritti morali d'autore sulle opere da parte della Fondazione. Nonostante le delusioni del primo e del secondo grado (in cui era stata dichiarata la finalità meramente illustrativo/didascalica della catalogazione, lecita ai sensi dell’art. 70 LdA), gli eredi di Schifano hanno portato le loro ragioni sino in Cassazione, con esito favorevole.
Richiamandosi ad una nota pronuncia del 1996 (11343/96) la Corte ha sviscerato il tema della (libera) utilizzazione/riproduzione di opere d’arte e della conseguente possibile violazione dei diritti morali dell’artista (o dei suoi eredi), ritenendo, nel caso di specie, che il catalogo informatico, pubblicato anche in forma cartacea e divulgato dalla Fondazione (seppur gratuitamente), non potesse rientrare nelle ipotesi di deroga previste dall’art. 70 Lda, bensì ne costituisse, piuttosto, una violazione.
Secondo la Corte, infatti, la riproduzione di opere d'arte, allorché sia integrale e non limitata a particolari delle opere medesime non costituisce alcuna delle ipotesi di utilizzazione libera per godere del regime delle libere utilizzazioni, inoltre, detta riproduzione deve essere strumentale agli scopi di critica e discussione, oltre che al fine meramente illustrativo correlato ad attività di insegnamento e di ricerca scientifica dell'utilizzatore e non deve porsi in concorrenza con l'utilizzazione economica dell'opera che compete al titolare del diritto: diritto che ricomprende non solo quello di operare la riproduzione di copie fisicamente identiche all'originale, ma qualunque altro tipo di replicazione dell'opera che sia in grado d'inserirsi nel mercato della riproduzione, e quindi anche la riproduzione fotografica in scala.
Ennesima debacle, quindi, per la Fondazione, cui era già stata proibita la spendita del nome dell’artista nonché la possibilità di presentarsi sul mercato come unico ente certificatore delle opere di Schifano.
Il caso Koons e il diritto di disconoscimento di un'opera
di Avv. Michela Zanetti
Con un’importante sentenza, il giudice italiano si è espresso sui limiti dell’esercizio del diritto di disconoscimento di un’opera autoriale, sottraendolo definitivamente al libero arbitrio dell’artista.
Il caso
Nell’ottobre del 2021, la Corte d’Appello di Milano, confermando i principi già enunciati dal Tribunale di primo grado nel novembre 2019, ha definito i confini entro cui un artista può esercitare la propria facoltà di disconoscere un’opera d’arte, dichiarando l’imprescindibile necessità che tale diritto venga bilanciato con gli eventuali diritti acquisiti dai terzi. In questo modo, la Corte ha sottratto al libero arbitrio dell’artista la possibilità di esercitare il disconoscimento di un’opera d’arte, tutelando la certezza dei rapporti giuridici coinvolti.
Nel caso di specie, oggetto del contendere era la piccola scultura in ceramica denominata The Serpents n. 2/3, appartenente alla serie Banality dell’artista americano Jeff Koons, la cui realizzazione era stata commissionata nel 1988 ad una azienda italiana.
Nel 1997 veniva instaurata, davanti alla Southern District Court di New York, la prima vicenda giudiziaria riguardante questa scultura: Koons era, infatti, riuscito a bloccarne la vendita all’asta da Christie’s, sostenendo che si trattasse di un’opera contraffatta. L’esito del giudizio americano, tuttavia, non fu favorevole per l’artista, le cui pretese vennero fermamente respinte dalla Corte.
Ciononostante, Koons continuò, negli anni, ad ostacolare la circolazione dell’opera, sino a quando fu citato in giudizio davanti ai giudici milanesi. L’origine del contenzioso risale alla fine del 2014, quando un gallerista italiano, interessato all’acquisto della scultura, si rivolse direttamente a Koons per riceverne l’autentica. Quest’ultimo, senza esitazione, negò il rilascio della dichiarazione di autenticità, affermando, questa volta, non tanto che si trattasse di un’opera contraffatta, bensì piuttosto di un prototipo insoddisfacente.
Il proprietario dell’opera, avendo visto sfumare per l’ennesima volta una potenziale vendita, citò in giudizio l’artista americano per il risarcimento di tutti i danni subìti in conseguenza delle dichiarazioni rese in merito a The Serpents 2/3. Anche questa volta, Jeff Koons ha visto respinte le proprie richieste.
Con questa sentenza, la Corte d’Appello di Milano ha assunto una netta posizione rispetto ad alcuni ricorrenti quesiti in tema di disconoscimento di un’opera e dei relativi limiti.
Può un’artista disconoscere la propria opera?
Sì. Secondo la tesi giurisprudenziale maggioritaria, il diritto di disconoscere un’opera autoriale altro non è se non una declinazione del diritto morale d’autore previsto dall’articolo 20 della legge sul diritto d’autore: dalla norma, oltre alla facoltà positiva dell’artista di identificarsi e rivelarsi autore di un’opera di carattere creativo e di rivendicarne la paternità, si ricava inoltre la corrispondente facoltà “negativa” di disconoscerne la paternità, anche successivamente alla sua circolazione sul mercato.
Ci sono dei limiti al disconoscimento?
Tale tutela non può certo essere illimitata, anzi, deve essere contenuta entro limiti ben precisi che consentano la protezione anche degli eventuali ulteriori interessi coinvolti. Sappiamo, infatti, che l’autenticità di un’opera – e, quindi, la paternità riconducibile ad un determinato artista – è elemento cruciale di un contratto di compravendita, da cui dipende la volontà stessa dell’acquirente di procedere con l’acquisto e, senza dubbio, la determinazione del prezzo. È evidente che, nel caso in cui un’opera già circolante sul mercato venga disconosciuta, il proprietario rischia di subire un danno, derivante dalla diminuzione di valore del suo acquisto e dalla perdita di perde potenziali ulteriori rivendite. Diventa, quindi, indispensabile sottrarre all’alveo dell’arbitrarietà il diritto di disconoscimento, individuando dei limiti precisi entro cui tale facoltà possa essere esercitata.
Quali sono questi limiti?
Un artista non potrà ritirare la propria opera dal commercio se non in presenza di gravi ragioni morali e di un conseguente pregiudizio oggettivo alla sua reputazione ed all’immagine.
Inoltre, un artista non potrà chiedere la soppressione di un’opera o impedirne l’esecuzione in forza di intervenute modifiche che egli stesso abbia accettato e conosciuto.
In conclusione…
Alla luce di queste considerazioni, il Tribunale (confermato poi dalla Corte in appello) ha ritenuto che l’artista non avesse alcun diritto di disconoscere l’opera The Serpents 2/3, mancando la prova del carattere lesivo della stessa per la sua reputazione e non sussistendo alcuna grave ragione morale tale da giustificarne il ritiro dal commercio. Non solo: il giudice ha ritenuto che l’artista avesse accettato la divulgazione dell’opera, non avendo fatto nulla per distruggerla o impedirne la circolazione.