Utilizzo e riproduzione di beni culturali: Gallerie dell’Accademia contro Ravensburger sul puzzle dell’Uomo Vitruviano

di Avv. Michela Zanetti

 

Nel novembre scorso, all’esito di un giudizio cautelare instaurato davanti al Tribunale di Venezia, il Ministero della Cultura e le Gallerie dell’Accademia di Venezia hanno ottenuto l’inibitoria nei confronti dell’azienda tedesca Ravensburger all’utilizzo per scopi commerciali dell’immagine e della denominazione dell’opera “Uomo Vitruviano” di Leonardo da Vinci. La Ravensburger, infatti, avrebbe sfruttato commercialmente l’immagine dell’opera leonardesca riproducendola sui suoi puzzle, senza alcuna autorizzazione da parte dell’istituto museale e senza aver corrisposto alcun canone o corrispettivo per il suo utilizzo.

Il nostro ordinamento riconosce piena tutela all’immagine ed alla denominazione dei beni culturali, la cui riproduzione è disciplinata dagli articoli 107-109 del D.lgs 42/2004. Nello specifico, la normativa prevede che la riproduzione di un bene culturale per finalità commerciali sia subordinata (i) al rilascio di un’autorizzazione da parte dell’amministrazione che ha in custodia il bene ex art. 107, 1 comma (autorizzazione che potrà essere resa solo all’esito di una valutazione di compatibilità tra l’utilizzo richiesto e la destinazione culturale/carattere storico-artistico del bene stesso) e (ii) al versamento di un canone di concessione per tale utilizzo, ex art. 108 comma 1 e 2. Entrambi i requisiti sono necessari affinché la riproduzione a scopo di lucro possa definirsi legittima. Il legislatore ha previsto, inoltre, alcune ipotesi in cui i beni culturali possono essere riprodotti o duplicati senza autorizzazione, per le quali è ovviamente esclusa la finalità commerciale (art. 108 comma 3 e 3bis).

Nel caso in esame, il Tribunale ha accolto la tesi delle ricorrenti, secondo cui la condotta di Ravensburger sarebbe lesiva oltre che degli articoli 6, 7 e 10 del Codice Civile (diritto e tutela al nome e all’immagine) anche del “Regolamento per la riproduzione dei beni culturali in consegna alle Gallerie dell’Accademia di Venezia”, redatto proprio in conformità agli artt. 107-109 del Codice dei Beni Culturali; in ragione di tali violazioni, il Tribunale ha definito irrimediabile il danno perpetrato ai danni dell’opera “Uomo Vitruviano” da parte di Ravensburger per averne quest’ultima riprodotto “indiscriminatamente” l’immagine a fini commerciali. La condotta di Ravensburger avrebbe determinato sia uno svilimento dell’immagine e della denominazione del bene culturale che una perdita economica a danno delle autorità ricorrenti. Affermano i giudici “[…] tale condotta appare costituire illecito determinante un danno risarcibile ex artt. 2043 e 2059 c.c., laddove il danno è costituito, in primo luogo, dallo svilimento dell’immagine e della denominazione del bene culturale (perché riprodotti e usati senza autorizzazione e controllo rispetto alla destinazione) e, in secondo luogo, dalla perdita economica patita dall’Istituto museale (per il mancato pagamento del canone di concessione e dei corrispettivi di riproduzione)”. Pertanto, il Tribunale di Venezia ha inibito a Ravensburger Verlag GmBH e Ravensburger S.r.l l’utilizzo dell’immagine e della denominazione dell’opera “Uomo Vitruviano” di Leonardo da Vinci per scopi commerciali, in qualsiasi forma e in qualunque prodotto e/o strumento, anche informatico sui propri siti internet e su tutti gli altri siti e social network di loro competenza, prevedendo altresì il pagamento di una penale di € 1.500 per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento.

Sebbene non si tratti dell’unica decisione in tema di riproduzione illecita di beni culturali (si pensi alla recente pronuncia del Tribunale di Firenze sull’illecito utilizzo dell’immagine del David di Michelangelo da parte di una nota rivista o a quella del Tribunale di Palermo sullo sfruttamento dell’immagine del Teatro Massimo), questa decisione risulta particolarmente significativa perché sancisce lo status di norme di applicazione necessaria, ex art. 17 L. 218/95, delle disposizioni del Codice dei Beni Culturali, decretandone la possibile applicazione oltre i confini nazionali, nei confronti di soggetti stranieri che operano all’estero e online. Secondo i Giudici veneziani “il Codice italiano rappresenta un unicum a livello europeo proprio in considerazione del fatto che, con la sua adozione, il Legislatore ha inteso tutelare al meglio un interesse ritenuto essenziale per lo Stato italiano (notoriamente famoso in tutto il mondo soprattutto per il suo immenso patrimonio storico-artistico e culturale, valore costituzionale riconosciuto all’art. 9 Cost. e identitario della collettività in una dimensione di fruizione pubblica), divenendo dunque il rispetto delle disposizioni codicistiche –ivi compreso l’art. 108, avente dunque carattere imperativo similmente alle altre disposizioni - assolutamente cruciale per la salvaguardia dell’interesse pubblico, tanto sociale quanto economico (sul punto, la Corte di Giustizia ha già avuto modo di affermare che “conservazione del patrimonio storico ed artistico nazionale possono costituire esigenze imperative che giustificano una restrizione della libera prestazione dei servizi” sent. del 21.02.1991, C- 180/89).

Recentemente è insorta un’interessante controversia tra le Gallerie degli Uffizi e la maison francese Jean Paul Gaultier, in tema di illecito utilizzo dei beni culturali. In questo caso, la nota casa di moda aveva commercializzato una collezione di vestiti ed accessori denominata “Le Musée”, su cui era riprodotta l’immagine della “Venere” di Botticelli, utilizzata senza preventiva autorizzazione né corresponsione di alcun canone. Gli Uffizi avevano intimato alla maison francese il ritiro dal mercato dei capi della collezione o, in alternativa, la regolarizzazione dell’utilizzo tramite un accordo con il museo. Tuttavia, data l’indifferenza della Jean Paul Gaultier alle richieste del museo, gli Uffizi erano stati costretti ad agire in giudizio per far valere le proprie pretese. Bisognerà attendere ancora un po’ per conoscere l’esito della controversia e quali misure verranno applicate per la tutela del nostro patrimonio culturale.

 

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Scimmie annoiate, scimmie plagiate: la vittoria di Yuga Labs contro Ryder Ripps

di Avv. Michela Zanetti

 

Ad annoiare troppo le scimmie finisce che te le plagiano: per questo motivo, Yuga Labs, società creatrice di The Bored Ape Yacht Club, ha denunciato l’artista Ryder Ripps (ed il suo collaboratore Jeremy Cahen) per aver coniato e venduto una serie di NFT denominata RR/BAYC repliche degli originali NFT Bored Ape.

Facciamo un passo indietro e, per chi non lo sapesse, vediamo in cosa consiste il Bored Ape Yacht Club: si tratta di una collezione di diecimila NFT, rilasciata tra aprile e maggio 2021, dalla società Yuga Labs. Ogni NFT rappresenta una scimmia (Ape) generata dalla combinazione di 170 caratteristiche scelte in maniera casuale. Dopo la prima settimana di prevendita, la notte del 1° maggio 2021 la collezione è andata sold out. La fama di questi collectibles è stata sancita dal mercato secondario: si pensi che a settembre 2021, ovvero solo tre mesi dopo il loro rilascio, un lotto di 101 Ape è stato venduto da Sotheby’s per 25 milioni di dollari. Sempre le Ape hanno sbancato anche la prima Sotheby’s Natively Digital 1.2, con una vendita pari a 3,4 milioni di dollari. Un aspetto sicuramente interessante di questi NFT è dato dai diritti e privilegi riconosciuti in capo ai loro proprietari e che ne hanno sancito, sin da subito, il ruolo di status symbol: essere titolari di un NFT Bored Ape, infatti, consente di entrare a far parte del relativo Club esclusivo, con tutti i vantaggi a ciò connessi. Inoltre, ai titolari di NFT Bored Ape vengono riconosciuti diritti e libertà creative su ogni singolo avatar acquistato, ovvero una sorta di diritto di sfruttamento commerciale della propria scimmia (ma, attenzione, non del marchio BAYC).

Tornando alla vicenda in questione, nel maggio 2022 l’artista Ryder Ripps coniava una collezione “parallela” di NFT, denominata RR/BAYC, in tutto e per tutto simile a quella ufficiale. Ripps avrebbe sfruttato la notorietà degli NFT BAYC per commercializzare i propri RR/BAYC, inducendo il pubblico a credere che le due collezioni fossero in qualche modo connesse o affiliate. Di fronte alle contestazioni di Yuga, Ripps si difendeva sotto lo scudo della appropriation art, adducendo di aver agito per protesta contro il mondo degli NFT e dei Bored Ape e chiarendo come fosse ben noto al pubblico che la sua collezione fosse diversa da quella ufficiale. Niente confusione, quindi, bensì solo l’intento di lanciare un messaggio artistico “diverso”. La critica di Ripps alle Bored Ape, infatti, risaliva al novembre 2021, con il lancio di una campagna mediatica contro le “Yuga scimmie”, accusate di contenere una simbologia nazi-razzista troppo evidente.

Nel luglio 2022, Yuga Labs si rivolgeva alla Corte distrettuale della California per veder tutelato, in primis, il proprio marchio, ai sensi del Trademark Act (Lanham Act). Yuga contestava inoltre falsa denominazione di origine, cybersquatting e concorrenza sleale. Ripps e Cahen presentavano una serie di eccezioni, tra cui il fatto che l'uso dei marchi BAYC fosse protetto dal Primo Emendamento e dal fair use.

Nel provvedimento, la Corte californiana si è interrogata sulla possibilità che gli NFT rientrino tra i "prodotti" tutelati dal Lanham Act. La risposta è stata affermativa e pertanto gli NFT, pur nella loro essenza virtuale ed intangibile, vengono considerati a tutti gli effetti “beni” ai sensi del Lanham Act (nel testo della sentenza, che richiama anche quanto sostenuto anche della sentenza Hermès International v. Rothschild, si afferma che “intangibility does not exclude NFTs from having other characteristics of ‘goods,’ including being individually transferrable between owners, storable for indefinite periods of time, exclusively owned by a single owner, and distinguishable based on their source.”)

Altra importante questione affrontata nel provvedimento riguarda il cybersquatting. La Corte ha affermato che può definirsi cybersquatter colui che “knowingly obtains from a registrar a domain name consisting of the mark or name of a company for the purpose of ransoming the right to that domain name back to the legitimate owner for a price.” Establishing a cybersquatting claim requires the plaintiff to show that “(1) the defendant registered, trafficked in, or used a domain name; (2) the domain name is identical or confusingly similar to a protected mark owned by the plaintiff; and (3) the defendant acted with bad faith intent to profit from that mark [1]”. Nel caso in esame, Ripps e Cahen avevano registrato ed utilizzato i nomi di dominio https://rrbayc.com/ e ttps://apemarket.com/, contenenti il marchio BAYC e il nome (bored) APE: ciò ha portato la Corte ha ritenere che i nomi utilizzati fossero uguali (o perlomeno simili) al marchio di Yuga Labs, riconoscendo altresì la mala fede in capo a Ripps e Cahen (si pensi che durante la registrazione di questi nomi a dominio entrambi avevano nascosto le proprie identità).

La vicenda giudiziaria ha trovato un primo punto di arrivo soltanto nell'aprile di quest'anno: la Corte, ritenendo validi e tutelabili i marchi utilizzati da Yuga Labs e ritenendo altresì che la condotta di Ripps e Cahen fosse tale da ingenerare confusione nel pubblico di riferimento, ha concesso a Yuga il provvedimento sommario richiesto in corso di causa. Nel provvedimento si dichiara che l’uso del marchio BAYC in relazione agli NFT creati da Ripps e ai relativi nomi a dominio costituisce una falsa denominazione di origine ai sensi del Lanham Act nonchè un'ipotesi di cybersquatting.

[1] Trad. cortesia: (qualcuno che) ottiene consapevolmente da un registrar un nome di dominio costituito dal marchio o dal nome di un'azienda allo scopo di riscattare il diritto a tale nome di dominio al legittimo proprietario dietro pagamento di un prezzo". Per stabilire un reclamo per cybersquatting è necessario che il ricorrente dimostri che "(1) il convenuto ha registrato, trafficato o usato un nome di dominio; (2) il nome di dominio è identico o confusamente simile a un marchio protetto di proprietà del ricorrente; e (3) il convenuto ha agito in mala fede con l'intento di trarre profitto da tale marchio.

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Modigliani e i falsi di Genova: tutti assolti e otto opere dichiarate false

di Avv. Michela Zanetti

 

È il marzo 2017 quando a Genova, nell’appartamento del Doge di Palazzo Ducale, apre al pubblico una mostra dedicata al grande maestro livornese Amedeo Modigliani e a Moise Kisling: 70 opere esposte provenienti da importanti musei internazionali e prestigiose collezioni private. Potenzialmente un successo, nei fatti un disastro: la mostra viene chiusa anticipatamente il 13 luglio a seguito del sequestro disposto dalla Procura di Genova di ben 21 opere, tutte sospettate di essere dei falsi (in corso di giudizio, le perizie dell’accusa dichiareranno che solo 20 sarebbero “grossolanamente false”, ndr). Il fatto che a denunciarne la presunta non autenticità fossero nomi illustri del mondo della critica contribuiva ad accrescere la risonanza mediatica della vicenda. Sei (scesi poi a cinque, ndr) gli imputati su cui pendeva l’accusa di truffa aggravata, messa in circolazione di opere false e riciclaggio. Secondo la ricostruzione della Procura, le opere erano state esposte per poterne accrescere il valore economico sul mercato in vista di una successiva rivendita. Un processo svolto a colpi di perizie, conclusosi solo qualche giorno fa con l’assoluzione di tutti gli imputati e la conferma che solo 8 tra le opere originariamente sequestrate sarebbero effettivamente dei falsi.

Non vi sono dubbi che quello che si è recentemente concluso sia solo il primo capitolo di una saga giudiziaria che si prospetta molto lunga: mentre restiamo in attesa di leggere le motivazioni della sentenza, possiamo solo chiederci quali saranno le sorti dei soggetti che hanno subito una forte lesione dei propri diritti di immagine (si pensi, fra gli altri, alla Fondazione Palazzo Ducale) oppure a quali azioni intraprenderanno gli otto collezionisti che, in esecuzione della condanna, dovranno apporre sulle proprie opere la dicitura “Opera falsa non attribuibile ad Amedeo Modigliani”. Più di ogni altra cosa, tuttavia, questa vicenda porta nuovamente alla luce problematiche che ormai da troppo tempo affliggono il mercato dell’arte, come l’importanza di condurre una adeguata due diligence (cfr. "Gli accorgimenti da adottare nell’acquisto di un’opera d’arte") sulle opere, unico vero strumento per valutarne o meno l’autenticità, oggi ancora troppo spesso trascurato ed oscurato dall’utilizzo di criteri soggettivi, non scientifici, influenzati dalla notorietà di chi redige l’expertise (e, a tal proposito, si pensi alle “battaglie” che ancora vengono ingaggiate tra i vari esperti di un determinato artista).

Ad ogni modo, che le vicende legate a Modigliani siano destinate a creare piccoli terremoti nel mondo dell’arte è cosa nota. Non si può non ricordare, a tal proposito, l’episodio conosciuto come “la beffa del 1984”: mentre Livorno festeggiava il centenario della morte del maestro, nell’estate del 1984, vennero ritrovate nel Fosso Mediceo tre sculture a forma di testa che periti ed esperti attribuirono alla mano di Modì. Una vecchia leggenda narrava, infatti, che nel 1909 Modigliani avesse gettato nel fossato alcune sculture ritenute esemplari poco soddisfacenti. In seguito al ritrovamento, che ebbe un’eco mediatica internazionale senza precedenti, per più di un mese esperti e critici d’arte gridarono al miracolo, osannando le sculture ritrovate. Fino a che tre studenti universitari (Michele Ghelarducci, Pietro Luridiana e Pierfrancesceo Ferrucci) dichiararono che l’opera non era altro che una loro creazione, realizzata con l’aiuto di un semplice Black and Decker: altro che ritrovamento miracoloso, si trattava soltanto di uno scherzo, anzi di una delle più grandi burle mai realizzate nel mondo dell’arte. Purtroppo, anche la presunta autenticità delle altre due sculture capitolò a distanza di qualche giorno: in questo caso l’autore si rivelò essere l’artista Angelo Froglia, il quale, tuttavia, dichiarò un intento più nobile rispetto a quello che aveva mosso il trapano dei tre studenti. Non una burla, quindi, bensì la volontà di lanciare un messaggio chiaro e quanto mai attuale: “Volevo semplicemente far sapere come nel mondo dell'arte l'effetto dei mass media e dei cosiddetti esperti possa portare a prendere grossissimi granchi” (cit). Messaggio su cui, anche oggi, è sempre utile riflettere.

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Una banana in cerca d’autore

di Avv. Michela Zanetti

 

Quando in arte si parla di banane il collegamento all’oramai iconica “Comedian” di Maurizio Cattelan è quasi scontato.
L’opera, realizzata nel 2019, ha fatto parlare di sé fin dagli esordi: qualcuno l’ha osannata, qualcuno l’ha denigrata, qualcuno l’ha mangiata (!!) e qualcuno ne ha rivendicato la paternità. Nello specifico, quest’ultimo “qualcuno” è stato l’artista statunitense Joe Morford, che ha intentato oltreoceano una causa civile nei confronti di Cattelan per violazione del diritto d’autore. Secondo Morford, infatti, Cattelan avrebbe “copiato” il concept di Comedian, prendendo ispirazione dalla propria opera “Banana and Orange”, realizzata nel 2000 e parte dalla serie “Sculptures: Still Life” (installazione realizzata con una banana e un’arancia attaccate con del nastro adesivo grigio a dei pannelli verdi).
La controversia è stata decisa proprio qualche giorno fa, quando le accuse di Morford sono state definitivamente respinte dal giudice federale di Miami. Nessun plagio né violazione del copyright, quindi, per Maurizio Cattelan: secondo il giudice Robert Scola non ci sarebbero prove sufficienti che l’artistar padovano abbia visto l’opera di Morford e se ne sia ispirato. Inoltre, il giudice, oltre ad aver rilevato importanti differenze tra le due opere, ha affermato che il concept delle stesse (ovvero una banana attaccata ad un piano verticale con del nastro adesivo) non può considerarsi protetto dalla legge sul copyright.
Esposta per la prima volta ad Art Basel Miami Beach nel 2019 allo stand del gallerista parigino Perrotin, “Comedian” è stata realizzata in tre esemplari, venduti per un totale di quasi 400 mila dollari. Il messaggio che l’artista ha voluto veicolare con questa installazione è quello di far riflettere il pubblico sul valore che al giorno d’oggi viene dato alle opere d’arte e, più in generale, agli oggetti.

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Prorogata la mostra “Klimt e l’arte italiana”

È in corso al Mart di Rovereto una mostra che riunisce i due capolavori “italiani” di Klimt, Giuditta II e Le tre età, affiancandoli alle opere di oltre quaranta grandi maestri italiani del primo Novecento che furono profondamente influenzati dall’artista austriaco: in occasione della Biennale di Venezia del 1910 e dell’Esposizione Internazionale di Roma del 1911, un’intera generazione di artisti, tra cui Vittorio Zecchin ed i giovani “dissidenti” di Cà Pesaro, Vito Timmel, Felice Casorati, Galileo Chini e Luigi Bonazza, finì per rinnovare il proprio linguaggio artistico sotto l’influsso della cultura mitteleuropea.
Lo stesso Klimt fu a sua volta erede della tradizione italiana: l’impiego della foglia oro, di elementi decorativi e della bidimensionalità rispecchia l’ispirazione dell’artista ai mosaici bizantini delle chiese ravennati e alle murrine veneziane che ebbe modo di osservare durante diversi viaggi nel nostro Paese.

Il percorso espositivo consta di 200 opere provenienti da collezioni pubbliche e private ed è interamente dedicato all’analisi delle influenze del padre della Secessione viennese sull’arte italiana: dalla pittura alla scultura, passando attraverso le arti decorative, è evidente come discipline differenti convivano sotto il riconoscibile segno dell’artista, i cui riferimenti sono visibili nei decori, nell’opulenza cromatica e nello stile.
L’arte italiana del suo tempo ha preso diversi elementi in prestito, conservando al contempo un carattere originale e dando vita ad inedite forme espressive: parliamo in primo luogo del Divisionismo, fenomeno artistico che si afferma in Italia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, che ne sconvolge l’uso del colore e della luce, dando luogo ad una rappresentazione affine all’estetica simbolista di Klimt. Le opere sono caratterizzate da linee sinuose, forme geometriche e colori luminosi, che rispecchiano la propensione dell’artista viennese all’ornamentale.
Lo spirito rivoluzionario di Klimt ha indubbiamente lasciato un’impronta nelle opere degli artisti italiani favorendo anche l’innovazione e la rottura con la tradizione, come nel caso del Futurismo e del fascino per il dinamismo e per la frenesia della vita moderna.

Gli artisti italiani del Novecento non furono dunque meri imitatori di Klimt, bensì ne furono ispirati reinterpretandone il linguaggio, con esiti del tutto nuovi e stupefacenti che potrete scoprire personalmente visitando la mostra, la cui apertura è stata prorogata fino al 27 agosto.