di Avv. Michela Zanetti

 

In una sentenza del novembre 2021, la Corte d’Appello di Milano si è chiesta se l’opinione resa da archivi e fondazioni possa essere sufficiente a decretare, tout court, l’autenticità o meno di un’opera d’arte.

Oggetto del contendere era il dipinto «Study for Homage to the Square» attribuito, secondo quanto riferito dallo stesso proprietario, all’artista Josef Albers. L’opera, acquisita per eredità, era priva sia del certificato di autenticità che del numero di archiviazione. Nulla di anomalo, fintanto che il dipinto era rimasto appeso alle pareti dell’abitazione del suo proprietario. Tuttavia, quando un mercante d’arte mostrò interesse all’acquisto, l’opera fu sottoporta all’esame del legale rappresentante della Albers Foundation – fondazione istituita nel 1971 che si occupa di tutelare nel mondo il nome e le opere dell’artista. L’analisi (affidata esclusivamente all’esperienza e all’occhio allenato dell’espero) si rivelò disastrosa: il dipinto venne dichiarato falso e la firma apocrifa. Supportato dalla storica dell’arte della Fondazione, il legale rappresentante denunciò il proprietario del dipinto al nucleo Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale di Monza. All’esito del giudizio di primo grado, nell’ottobre 2020, l’opera fu confiscata e il proprietario condannato per ricettazione – n.d.r. poi assolto nel giudizio d’appello.

La sentenza venne impugnata dai legali dell’imputato, che insistevano sull’assenza dell’elemento oggettivo (assenza della prova certa della falsità) e soggettivo del reato (assenza del dolo eventuale). Secondo la ricostruzione della difesa, l’imputato non poteva avere alcuna reale consapevolezza della (presunta) falsità dell’opera, in forza dell’intrinseca storicità della stessa – purtroppo ignorata o, comunque, sottovalutata dall’analisi di Weber. Nello specifico, (i) il dipinto presentava alcune iscrizioni sul retro della tela riconducibili al padre del gallerista e, forse, allo stesso Albers, (ii) l’opera risultava inclusa in un volume dedicato all’artista, la cui prefazione era redatta proprio da Weber e (iii), infine, il dipinto era stato esposto in una mostra, ufficializzata nel sito internet della stessa Fondazione.

La Corte – consapevole del fatto che non sempre chi possiede un’opera d’arte è in grado di provarne l’autenticità, e che l’incertezza che da ciò ne deriva è elemento caratterizzante lo scambio di beni nel mercato dell’arte – si è interrogata su quale debba essere il peso effettivo dell’opinione resa da archivi e fondazioni nel determinare la non autenticità di un’opera, in considerazione anche del ruolo che tali enti ormai rivestono nel mercato dell’arte. Infatti, l’autorità riconosciuta ad archivi e fondazioni nel decretare l’autenticità o meno di un’opera d’arte deriva da una consuetudine instaurata e riconosciuta nel mercato dai suoi principali operatori (galleristi, case d’asta e mercanti d’arte) e che si fonda, di fatto, sulla credibilità e buona reputazione di cui godono tali enti. Tuttavia, archivi e fondazioni, quando sono chiamati a valutare l’autenticità o meno di un’opera, non fanno altro che esprimere delle opinioni che, pur se indubbiamente autorevoli, non godono di certezza assoluta né derivano dalla applicazione di una scienza esatta. Tali opinioni, piuttosto, conservano un’intrinseca soggettività ed un innegabile margine di discrezionalità e sono, pertanto, sempre modificabili e contestabili.

È quindi possibile che un solo occhio esperto, per quanto autorevole, sia in grado di decretare la non autenticità di un’opera d’arte? Si legge in sentenza: Il parere di un esperto, indipendentemente da quanto autorevole sia, può sempre essere messo in discussione da altro esperto o consulente. Occorre, infatti, tener conto della peculiarità dell’oggetto d’arte come oggetto di scambio, peculiarità che dipende principalmente dall’incertezza intrinseca della sua esatta identità e provenienza, che spesso dipendono da una valutazione, quella dell’esperto, che per quanto diligentemente resa, altro non è se non un giudizio, un’opinione, suscettibile come tale di mutamento.

I giudici milanesi sembrano aver preso consapevolezza del fatto che le opinioni sull’autenticità delle opere d’arte devono essere supportate da prove tecniche, storiche, scientifiche – in altre parole, da una attenta due diligence: solo così il destino di un’opera d’arte (autentica/non autentica) potrà essere affrancato dal parere di un unico soggetto/ente. Ciò a maggior ragione se si considera che, talvolta, tali enti possano trovarsi in conflitto di interessi con le parti coinvolte. Nel caso in esame, infatti, la Fondazione Albers si occupa anche di vendere al pubblico alcune opere dell’artista, esclusivamente attraverso rappresentanti autorizzati. Sul punto la Corte ha chiarito che il vaglio di attendibilità doveva essere ancora più penetrante in considerazione del fatto che l’Archivio, che possiede il monopolio sul rilascio dei certificati di autenticità, risulta altresì proprietario di opere e, quindi, inevitabilmente portatore di interessi economici sul mercato, dovendosi ipotizzare anche un potenziale conflitto d’interesse. La Fondazione Albers, difatti, come risulta espressamente dal suo sito web istituzionale, si occupa anche di vendere al pubblico un limitato numero di opere attraverso i suoi rappresentanti autorizzati.

La speranza è questa sentenza aiuti gli operatori del mercato dell’arte a comprendere la necessita e l’importanza di eseguire attente ed approfondite analisi e valutazioni sull’autenticità e provenienza delle opere che intendono scambiare, attraverso l’aiuto della professionalità di tecnici, storici dell’arte e legali.

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